In gergo giornalistico il coccodrillo è il pezzo pronto all’uso, da tenere in scrivania, per incensare un noto personaggio appena morto. Ma questo articolo non lo...
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Ma il mio non è un coccodrillo, non è nemmeno un alfiere che vorrebbe capovolgere la febbre dei click in favore di Rea. Però, quando muore un grande scrittore, il fatto va saputo e va diffuso, per essere meditato. La morte di Ermanno Rea, tra gli ultimi e più rappresentativi liberi intellettuali italiani, orgoglio napoletano della letteratura e del giornalismo, è occasione non per brandire fazzoletti lacrimati, ma per tornare a prendere in mano libri di autori che ci hanno lasciato sia l’arma della curiosità, contro la paccottiglia di tanta (dubbia) letteratura contemporanea ultra best seller ma senz’anima, sia l’arma della decenza, per insegnarci che di vicende come quella della morte della giovane donna si può semplicemente fare a meno, per rispetto del comune pudore e per evitare un’ulteriore (e non più controbattibile) gogna mediatica post-mortem, vero sfoggio di pornografia istituzionalizzata. La morte di Rea potrebbe insegnarci che certe notizie, semplicemente, dovrebbero esser date per il solo dovere di cronaca, ma occupare serenamente lo spazio che meritano, soprattutto in relazione alla carriera e alla produzione di un intellettuale come lui, non un glitterato vip del jet-set, ma un figlio di Napoli, che ha amato, illuminato e criticato sempre con la stessa eticità civile e letteraria la sua terra. Ma cosa accade praticamente, se l’opinione pubblica si concentra massivamente su una notizia morbosa di cronaca nera, anziché accorgersi di Ermanno Rea? A indicarne gli ovvi esiti è lo stesso scrittore, nelle pagine del suo La fabbrica dell’obbedienza, dov’è tratteggiato l’uomo medio(cre), «quel borghese piccolo piccolo privo di spina dorsale, un po’ mammone, un po’ cinico, un po’ imbroglione, nonché arrogante, servile, fanfarone, perfido, querulo, spaccone, bugiardo, egoista. E soprattutto senza scrupoli». Questo articolo vuole, semplicemente, provare a evidenziare la (vergognosa) sproporzione tra le due ravvicinate morti, e ridare a Cesare quel che è di Cesare, ovvero propagare ulteriormente l’eredità di ogni grande scrittore: l’invito alla libertà, alla riflessione e alla bellezza della vita, che inizia soprattutto attraverso i (buoni) libri, e non ha tempo da perdere tra moralisti e necrofili.
Gianpasquale Greco Leggi l'articolo completo su
Il Mattino