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Il risultato della ricognizione avviato dal Comitato di Emergenza gas riunito l’altro giorno dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, sarà disponibile domani o al massimo martedì. Sarà una mappa completa per stabilire la capacità produttiva massima e i tempi per raggiungerla, in caso fosse necessario spingere l’acceleratore sugli impianti. I dati riguarderanno anche l’energia proveniente dalle centrali a carbone per stabilire il loro contributo in percentuale al fabbisogno energetico nazionale. Perché ormai è certo, se la guerra in Ucraina continua, il processo di decarbonizzazione dovrà essere momentaneamente accantonato in modo da poter compensare in parte l’interruzione delle forniture di gas dalla Russia. Un problema che riguarda l’intera Europa, tant’è che per domani è stato convocato a Bruxelles un Consiglio Ue dell’Energia straordinario (per l’Italia parteciperà Cingolani).
Far marciare a pieno regime le centrali a carbone in Italia è una delle tessere del puzzle che il governo sta cercando di comporre per evitare che nei prossimi mesi l’Italia si possa ritrovare a corto di energia. L’Italia, come noto, è fortemente dipendente dal gas russo, su 70 miliardi di metri cubi consumati all’anno, il gas di Putin contribuisce per circa 30 miliardi di metri cubi (il 45% del fabbisogno di totale di gas). É una quota enorme difficile da compensare, quasi impossibile. A breve non è che ci siano tante alternative. In sostanza in questo momento, salvo nuove misure a livello europeo, sono solo tre le strade, oltre al carbone: attingere allo stoccaggio nazionale, aumentare l’import di gas dagli altri Paesi, far arrivare più navi con Gnl dagli Usa.
In realtà anche portando al massimo la capacità produttiva delle centrali a carbone, compresa la riattivazione di quelle spente, si risolve poco. Mettendo nel conto anche la centrale di La Spezia spenta a dicembre 2021, ne abbiamo sette in Italia. A Brindisi c’è la maggiore capacità produttiva installata: 2.450 megawatt su 4 unità, di cui una però spenta a dicembre 2020. Segue quella di Civitavecchia: tre unità per un totale massimo di 1845 Mw. Le altre sono tutte più piccole. A Fusina ci sono 4 unità (di cui 2 spente), per una capacità massima di 875 Mw. Nel Sulcis le unità sono due per 480 Mw. A Sassari (Fiumesanto) se si spinge al massimo si arriva a 534 Mw e a Monfalcone a 315.
Se l’emergenza dovesse durare poco, potremmo attingere allo stoccaggio, ma lo stesso Cingolani in Parlamento ha detto che - nonostante l’Italia sia stata più virtuosa di altri Paesi, con 18 miliardi di riserva a dicembre scorso - a fine aprile saremo «prossimi allo zero». Senza nuove iniezioni, ovviamente. L’altra tessere del puzzle del “piano di emergenza nazionale” è pompare al massimo il gas dagli altri Paesi, facendo lavorare a pieno carico i gasdotti Tap dall’Azerbaijan, Transmed da Algeria e Tunisia e Greenstream dalla Libia. Attualmente le forniture di gas dall’Algeria rappresentano il 19% del nostro fabbisogno, quelle dalla Libia il 6,2%, dalla Norvegia arriva il 9,8% del nostro gas, stessa quota dal Quatar, dagli Stati Uniti importiamo il 2,4% del fabbisogno. Di quanto si può aumentare? Secondo alcune stime davvero di poco. Libia e Algeria, ad esempio, nota l’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) in un report sulla vulnerabilità energetica europea, «non sembrano attualmente in grado di aumentare le forniture».
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