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Il paradosso è che disponendo, anche grazie al Pnrr, di maggiori risorse del passato, oggi è il Mezzogiorno a rischiare di più con una vacatio di governo o con il voto anticipato. E ieri, a sottolinearlo in modo ancora più esplicito, è stata il ministro per il Sud e la Coesione territoriale Mara Carfagna con un tweet: «La crisi non ferma solo un governo ma rischia di far svanire le speranze del Sud. Per la prima volta abbiamo smesso di trattarlo come zavorra: ogni futuro governo dovrà confrontarsi con questa svolta e dire con chiarezza se intende portarla avanti o ritornare al passato». Il pericolo esiste: dal futuro della Decontribuzione Sud al riparto, per la prima volta, di tutti e 56 i miliardi del Fondo sviluppo e coesione (80% al Sud), dai Contratti istituzionali di sviluppo non ancora sottoscritti alla grande e finora inesplorata partita delle fonti energetiche rinnovabili made nel Meridione, fa paura elenco delle misure e dei percorsi di crescita previsti per il Mezzogiorno che potrebbero essere bloccati o rallentati. E la settimana prossima a Roma il commissario Ue agli affari regionali Elisa Ferreira firmerà con la Carfagna l'accordo di partenariato per la spesa dei fondi ordinari europei 2021-27: si potranno gestire in questa fase senza governo?
Per il provvedimento più gradito degli ultimi anni dalle imprese (la riduzione del 30% e poi a scalare fino al 2029 del costo del lavoro) l'orizzonte si incupisce di brutto. La misura è stata confermata fino al 31 dicembre 2022 grazie al grande lavoro di squadra messo in campo dal governo (Carfagna e il sottosegretario Amendola in prima linea) ma la sfida più difficile si deve di fatto ancora lanciare. Ovvero, rendere la Decontribuzione Sud strutturale, agganciandola a riferimenti normativi, anche europei, tali da metterla al riparo da possibili stop. Per riuscirci occorrerebbe non solo una forte motivazione tecnico-giuridica ma soprattutto la stessa unità di intenti che ha permesso all'esecutivo Draghi di ottenere la proroga di altri sei mesi, fino a tutto il 2022. Quasi inutile aggiungere che, ad oggi, ogni previsione è a dir poco azzardata: se si andasse ad esempio alle urne in autunno, non ci sarebbe più il tempo per strutturare il dossier e riproporlo all'Ue (e al Parlamento) nelle giuste scadenze.
È stato per anni il bancomat dei governi. Pensato per affiancare risorse nazionali alla programmazione ordinaria dei Fondi strutturali europei, ma con assoluta autonomia da questi ultimi, il Fondo sviluppo e coesione è servito finora per tamponare emergenze (terremoti, alluvioni e disastri ambientali in genere) o per dirottare risorse a capitoli di spesa anch'essi di improvvisa necessità (come nel caso della pandemia). Un uso improprio, per quanto comprensibile, visto che l'80 per cento di quelle risorse per legge dev'essere speso al Sud. Di qui la decisione del ministro Carfagna di prevedere il riparto di tutto ciò che ancora non è stato assegnato, ovvero ben 56 miliardi di euro, fino al 2027 alle Regioni e alle amministrazioni centrali, rispettando ovviamente la quota riservata al Mezzogiorno. Il piano, già concordato con le Regioni e condiviso dal Parlamento, sarebbe dovuto andare al Cipess di fine luglio, introducendo una svolta epocale nella disponibilità di questi soldi, finalmente certi e assegnati anno per anno a chi ne ha diritto: il rischio adesso è che si blocchi tutto, impedendo alle Regioni soprattutto di programmare gli interventi più necessari. Il tesoretto non si perderà ma l'appesantimento dei tempi appare scontato.
Il ricorso ai Contratti istituzionali di sviluppo ha sicuramente accelerato il rapporto tra Stato centrale e territori per specifici progetti di sviluppo. Snellimento burocratico e condivisione di obiettivi tra pubblico e privato hanno funzionato al Sud dove i Cis sono entrati a vele spiegate.
Il ragionamento appena fatto vale soprattutto per l'energia di cui il Sud possiede la quota maggiore in Italia, quella solare ed eolica. È in nome di questo primato, reso ancor più significativo dalla crisi energetica e dalla vicinanza del Sud alle nuovi fonti di approvvigionamento di gas del Paese (l'Africa, a partire dall'Algeria) che diventa persino obbligata la strada dello sviluppo del Sud attraverso le sue stesse ricchezze. Ma un conto è dirlo, un altro praticarlo: il sistema amministrativo meridionale è talmente in difficoltà che non riesce a far fronte alle richieste di autorizzazioni che piovono da tutto il Sud per l'utilizzo delle rinnovabili. I ritardi, denunciati solo pochi giorni fa dal Dipartimento di energia elettrica della Federico II, rischiano di pesare non poco visto che già adesso il peso delle industrie che lavorano lenergia al Sud è solo il 20% del totale nazionale. La crisi di governo e il ritorno anticipato alle urne sarebbero una mazzata tremenda perché il tempo di certe decisioni è adesso e il Sud potrebbe ritrovarsi con lo stesso distacco anche dopo.
Qui apparentemente l'allarme Sud sembra essere meno forte. Nel senso che laddove le stazioni appaltanti (Fs, ad esempio) hanno già definito le tappe e le procedure di pere strategiche, come l'Alta velocità Napoli-Bari, non sono previsti contraccolpi anche perché i finanziamenti esistono e i cronoprogrammi possono essere rispettati. Qualche dubbio insorge a proposito di altre opere ferroviarie anch'esse previste ma ancora di fatto ai nastri di partenza, come l'Alta velocità Salerno-Reggio Calabria, o la Catania-Messina-Palermo o ancora la Roma-Pescara. Il rischio di un rallentamento delle procedure senza un forte e motivato controllo del governo non si può escludere. Per non parlare della decisione più delicata di tutte che resta quella relativa al Ponte sullo Stretto per la quale dovrà esprimersi anche il Parlamento: incerta in condizioni normali di vita politica, rischia di diventare impossibile con una crisi di governo.
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Il Mattino