Furono gli scrittori di lingua tedesca, come Wolfang Goethe, Philipp Josef Von Rehfues, Friederike Brun, Carl August Mayer, giunti nella capitale del Regno tra il finire del 1700...
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Colsero lo spaccato di una quotidiana vita cittadina, di una irreale Betlemme in cui pullulavano ciabattini, lavandaie, contadini, venditori di cognole e melloni, acquaioli, pescivendoli, fornai, macellai, castagnari, recottari, ruagnari, sausicciari, padulani, carnecottari. Una Betlemme ricca di osterie e di taverne: tante quante, forse 480, ne aveva la stessa Napoli. Ammirarono sul presepe quello che spesso ci sfugge: il trionfo e dei prodotti della terra e l’ostentazione del cibo. Quarti di manzi, testine di vitello, piedini di porco, salsicce e soppressate, ricotte, caciocavalli, maccheroni e “l’infinita famiglia dei pomi, delle duracine, dei zuccherini, delle giuggiole, dei frumenti, dei legumi, delle farine; e pine, e uve, e poponi, e mandorle, e noci, e castagne, e avellane… Secchi, sucosi, di colori mille. E tanti son che paiono d’acqua stille.” Una grande tavola imbandita, insomma, che lasciava dire ad Henry Lyonnet, uno scrittore francese passato per Napoli all’inizio del Novecento: “qui la vita sociale a Natale è sospesa. I poveri diavoli rassegnati a morir di fame tutto l’anno vogliono mangiare ventiquattro ore di seguito senza interruzione.” Il presepe napoletano oggi può essere visto ancora così: come il più realistico teatro delle specificità e delle identità gastronomiche regionali. Tutte da conoscere e gustare. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino