Michela Andreozzi: «Il caso del Righi? Meglio educare che correggere»

Michela Andreozzi: «Il caso del Righi? Meglio educare che correggere»
Ho frequentato una scuola di suore fino al ginnasio. Ascolta: Dall'ambasciatrice Emanuela D'Alessandro, consigliere diplomatico al Quirinale, ai personaggi di...

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Ho frequentato una scuola di suore fino al ginnasio.

Venendo da una famiglia estremamente laica, l’unica ragione per cui mio padre avvocato mi aveva iscritto lì era la vicinanza con il tribunale. A dispetto dei pregiudizi sugli ordini religiosi, ho trascorso anni bellissimi. Erano missionarie aperte e generose. Certo non tutte. C’era quella che andava a simpatie (a volte, gentile quanto l’infermiera Mildred Ratched), quella che aveva il business delle merendine, quella pigra che ci portava in gita tutte le settimane. A scuola erano tacitamente vietati: sigarette, trucco, minigonne e tacchi. Ma comunque la moda era quella dei colori pastello a vita alta: l’ombelico era uscito negli anni ’60, poi era andato in letargo e sarebbe tornato negli anni ’90, proprio come oggi.

LE REGOLE

Era facile rispettare le regole. Questo per premettere che era raro che volassero male parole. Se sgarravi, chiamavano i genitori. E i miei, di solito, solidarizzavano con gli insegnanti (tranne in IV elementare, quando scrissi un tema su “Mistero Buffo” che avevo visto in tv: convocarono mio padre perché la Vergine non era da mettere in discussione, ma lui fece una arringa sulla libertà di pensiero e l’anno dopo divenne il legale dell’ordine. C’è da dire però che era molto bono). Nessuno ti insultava, nessuno ti proteggeva: ciascuno faceva la sua parte nella tua educazione. Ti veniva spiegato perché dovevi fare certe cose ed evitarne altre. Mia madre non voleva che andassi in giro con gli short “per non turbare la sensibilità di certi uomini”, diceva, ma probabilmente era perché sembravo una provola. Siamo stati educati a proteggerci dal mondo, oggi il mondo si prova ad educarlo. Davanti a una espressione decisamente forte per un docente, come “Ma che stai sulla Salaria?” i miei mi avrebbero chiesto: “Che hai fatto?”. Oggi è giusto domandarsi se sia una frase da educatore. Non lo è. Soprattutto perché andrebbe rispettato anche chi passeggia sulla Salaria. Potremmo iniziare a usare altri sostantivi come monito, soprattutto dove si educa. Ma è sano ricordare che la scuola non è una social opportunity: anche se la luce è bella, è un luogo di formazione, non un set. I miei hanno provato a spiegarmi che la scuola è la prova generale di quello che poi accade nella vita: davanti a una querelle, bisogna assumersi la propria parte di responsabilità. Tutti. Ho l’impressione che questa bellissima lezione sia uscita dai programmi ministeriali. Forse, se ricordiamo che lo scopo è educare e non correggere, i conti tornano, per chi educa e per chi è educato. Che a volte è la stessa persona, nello stesso luogo e nello stesso momento.

*Attrice, sceneggiatrice e regista

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Il Mattino