Il 5% delle famiglie italiane possiede il 40% della ricchezza. Mentre il 30% più povero deve accontentarsi di una fettina pari all’1%. È la fotografia delle...
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Settemila famiglie residenti in Italia hanno risposto lo scorso ottobre a una «intervista lunga e impegnativa», racconta la Banca d’Italia, e il rapporto, relativo alla situazione del 2016, mostra diverse novità sia rispetto all’indagine precedente (2014) sia alla situazione di dieci anni prima (2006). In mezzo, tra il 2008 e il 2012, c’è stata la più pesante crisi economica del dopoguerra.
L’aumento delle disuguaglianze e della povertà è forse il fenomeno più preoccupante. Bankitalia misura le differenze nei redditi mediante il cosiddetto «indice di Gini», un parametro usato in tutto il mondo e inventato dallo statistico italiano Corrado Gini, che è stato il primo presidente dell’Istat, negli anni del fascismo. Il coefficiente di Gini è un numero compreso tra 0 e 1. Se tutte le famiglie avessero il medesimo reddito, l’indice sarebbe zero. Se invece tutte le famiglie tranne una non avesse nulla e quell’unica famiglia possedesse tutto, l’indice sarebbe 1. È evidente che entrambi gli estremi sono irraggiungibili e non c’è alcun accordo tra gli economisti su quale sia il valore ottimale. Nel mondo occidentale i valori vanno da 0,250 dei paesi Nord europei, dove c’è un forte stato sociale che tende a ridurre le disuguaglianze, allo 0,400 degli Stati Uniti, dove sono tollerati squilibri maggiori. L’Italia, che negli anni settanta era a un livello nordamericano, ha nel tempo ridotto i divari avvicinandosi al Nord Europa. Negli anni novanta però le distanze sono tornate a crescere fino a toccare un nuovo picco di 0,343 a fine secolo. Nel 2006 in Italia la disuguaglianza era scesa a 0,320 per poi arrivare a 0,330 nel 2014 e a 0,335 nel 2016.
Meno tecnico - e quindi di più immediata comprensione - è l’indicatore del rischio di povertà, definito come la quota di famiglie con un reddito inferiore al 60% di quello della famiglia mediana, cioè del nucleo che ha metà Italia più ricca sopra di sé e metà Italia più povera sotto di sé. Il reddito netto mensile mediano era di 1.383 euro per cui il 60% era pari a 830 euro netti mensili. Ebbene, quante famiglie italiane guadagnano meno di tale soglia? Nel 2006 erano il 19,6% e nel 2016 si è saliti al 22,9%, senza alcun segnale di inversione di tendenza grazie alla fine della crisi.
Per famiglie italiane, tuttavia, si intende residenti in Italia e infatti l’incremento più sensibile - dal 33,9% al 55% - si è registrato tra i nuclei con capofamiglia nato all’estero, mentre per quelle di cittadinanza italiana l’aumento è solo dal 18,8 al 19,5%. Visto che gli stranieri sono residenti soprattutto nelle aree più ricche del Paese, il loro impoverimento pesa soprattutto in quei territori, con il rischio povertà passato da 8,3% a 15% al Nord e da 9,7% a 12,3% al Centro.
Nel Mezzogiorno il fenomeno è invece stabile (si scende da 39,5% a 39,4%) ma il livello è talmente alto che non si può parlare di un dato positivo. Del resto nel Mezzogiorno - sottolinea Bankitalia - «il 13,3% degli individui vive in famiglie senza alcun percettore di reddito da lavoro rispetto al 6,1% nel Nord e 6,9% nel Centro».
Da segnalare che il rischio di povertà è in flessione rispetto a dieci anni fa per i pensionati e in particolare per le famiglie con capofamiglia oltre i 65 anni, la cui quota con redditi da povertà è diminuita dal 20,2% del 2006 al 15,7% del 2016. Invece la fascia di età che fa segnare il più marcato peggioramento è quella che dovrebbe segnare la massima attività lavorativa: da 35 a 45 anni. Sono infatti cresciuti i nuclei a rischio povertà dal 18,9% del 2006 al 30,3% del 2016. E tra queste famiglie ve ne sono molte di stranieri che non sono riuscite a contrastare gli effetti della crisi.
Notevole è anche la vulnerabilità finanziaria delle famiglie italiane, intesa come la possibilità di fronteggiare un periodo di almeno tre mesi di grave difficoltà economica liquidando tutti i propri risparmi. Sono in questa condizione il 44% delle famiglie italiane. Un valore molto alto anche se inferiore al picco del 46% misurato nel 2012, nel momento più stringente della crisi. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino