Il Madre va oltre il Madre, si offre come un palcoscenico luccicante e colorato per la città (con l'installazione di Daniel Buren); si mischia con le culture e sottoculture...
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Il tutto prenderà il via stasera alle 19, secondo un fitto programma presentato ieri dal presidente della Fondazione Donnaregina Pierpaolo Forte, dal direttore del Madre Andrea Viliani, e dal consigliere alla Cultura della Regione Campania Sebastiano Maffettone. Ma andiamo per ordine. Da oggi entrare al Madre significa entrare «dentro» un'opera d'arte che accoglie e avvolge, in un turbine di colori, linee e specchi che travolgono il visitatore disorientandolo felicemente, trasportandolo in una dimensione onirica e fatata di cui il visitatore stesso diventa parte.
È questo un dono che il maestro francese Daniel Buren fa al pubblico, ma anche «il risultato di uno straordinario rapporto che si è costituito tra l'artista e il museo - spiega il direttore Viliani - L'opera non è più solo un'opera ma diventa azione politica, civica, oltre che estetica e culturale». L'atrio del Madre è completamente trasformato da questa incredibile ed esaltante costruzione scenografica che interviene sull'architettura del luogo, e che ci auguriamo possa restare in maniera definita a caratterizzare il nostro museo. «Axer/Désaxer» (a cura di Viliani ed Eugenio Viola) è monumentale pur proponendo una leggerezza giocosa, è una «macchina scenica per la partecipazione attiva del pubblico», che vedendo la propria figura rispecchiarsi è invitato a sentirsi partecipe, quasi coautore. Buren è l'artefice di tanta magia, il meticoloso costruttore di questo nuovo Paese delle Meraviglie che è in stretto collegamento con la sua mostra «Come un gioco da bambini» (inaugurata nell'aprile scorso) in cui già propone una sua personalissima visione di città ideale. Ora sono invece gli spazi preesistenti ad essere sottolineati in modo plastico, con la tenda rigata posta all'ingresso che quando viene varcata introduce in questa dimensione nuova. Come se si salisse su un palcoscenico.
l museo dunque diventa teatro, e qui si recita il grande copione dell'arte. Al terzo piano, invece, muovendosi costantemente al confine tra arte e vita quotidiana, va in scena la grande macchina tecnologica di Mark Leckey che incanta le cose ordinarie, le trasforma in una galassia visionaria che fonde cultura alta e bassa, fisicità e virtualità, copia e originale, in una continua trasformazione della realtà e della nostre memorie. Il percorso espositivo di «Desiderata» (a cura di Elena Filipovic e lo stesso Viliani) si apre con l'abnorme presenza di Felix, il gatto-fumetto screscitato in un gigantesco pupazzo che invade lo spazio con tutto il suo corpo gonfiabile. Poi un grande figorifero nero sembra citare il monolite di «2001 Odissea nello spazio», in un opera che letteralmente dà voce ai possibili pensieri dell'oggetto. E ancora: video e filmati in super-8 che propongono un cortocircuito mediale tra digitale e analogico creando sfalsamenti temporali; sale illuminare di luci acide che evocano scenari urbani post apocalittici; calchi in legno o gomma per computer e torri elettriche; autoritratti dell'artista britannico che si traveste e guarda se stesso; fino al video iconico «Fiorucci Made Me Hardcore» che impose Leckey all'attenzione internazionale mischiando tensioni radicali a culture pop. (Questa mattina alle ore 11 Leckey e la Filipovic terranno anche un seminario al museo con 20 studenti dell'Accademia di Belle Arti di Napoli).
Per il progetto espositivo di Achille Bonito Oliva «L'albero della cuccagna.
Il Mattino