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Era il dominus della rete dei subappalti, all’ombra di Rfi e di altri ex colossi di Stato. Decideva quali ditte dovessero subentrare nei lavori di rifinitura e di messa in sicurezza della rete ferroviaria, poi faceva la voce grossa. In due direzioni: era infatti in grado di promuovere le carriere dei funzionari di Rfi, facilitandone la scalata interna; mentre strappava consulenze d’oro per prestazioni mai avvenute. Eccolo Nicola Schiavone, 68 anni, natali casertani, da anni residente a Napoli (studi tra via Gramsci, piazza dei Martiri, residenza a Posillipo). Assieme al fratello Vincenzo è finito in cella, al termine delle indagini dei pm Antonello Ardituro e Graziella Arlomede, sotto il coordinamento dell’aggiunto Rosa Volpe, in uno scenario che va chiarito così: Vincenzo e Nicola Schiavone sono solo omonimi dei boss casalesi, ma sono accusati di aver messo a frutto soldi sporchi di Francesco Sandokan Schiavone (il cosiddetto «lievito madre»).
Non sono nuovi agli uffici giudiziari, vennero coinvolti nel processo Spartacus (Vincenzo fu condannato a due anni, Nicola assolto), da allora si sono specializzati nella trama di affari legati alla sicurezza sulla rete ferroviaria. A leggere gli atti, hanno corrotto dirigenti e funzionari della Rfi, con un metodo basato anche su regali e elargizioni di soldi.
Preziosi gemelli d’oro Cartier da 600 euro, stipendì di mille euro mensili, soggiorni da oltre 9mila euro in costiera sorrentina, con tanto di prestazioni accessorie. E le promozioni. Sono i regali che gli ex dirigenti di Rfi avrebbero ricevuto in cambio di appalti finiti alle imprese ritenute colluse con il clan dei Casalesi. Trentacinque misure cautelari (17 in carcere, 17 domiciliari e un obbligo di presentazione) nei confronti di altrettanti indagati, tra cui imprenditori ritenuti in affari con la fazione Schiavone della mafia casalese, «colletti bianchi» del clan e dirigenti all’epoca dei fatti di Rete Ferroviaria Italiana. Tra gli appalti finiti nelle mani di ditte riconducibili al clan, figura anche quello di Rfi riguardante le centraline di sicurezza e della pavimentazione stradale. Sequestrati 50 milioni di euro. Contestati, a vario titolo, estorsione, intestazione fittizia di beni, turbativa d’asta, corruzione e riciclaggio, aggravati in quanto commessi per agevolare un’organizzazione mafiosa. Oltre a Nicola Schiavone e al fratello Vincenzo, in cella Dante Apicella, anche quest’ultimo nel maxiprocesso ai Casalesi Spartacus e almeno dagli anni 80 nel clan con funzioni direttive.
È la stessa Rfi a prendere le distanze da impiegati e funzionari coinvolti nel blitz. Si definiscono parte lesa, pronti a costituirsi parte civile nel corso di un eventuale processo.
È quella culminata negli arresti domiciliari a carico dell’avvocato di Napoli nord Matteo Casertano. Rivelazione di atti coperti da segreto d’ufficio: si sarebbe messo all’opera, tramite un amico carabiniere per avere informazioni sull’imprenditore casertano Crescenzo De Vito (ai domiciliari). Come avevano fatto a sapere dell’esistenza di un’inchiesta? Gliel’avrebbe raccontato - condizionale d’obbligo - il dipendente bancario di Torre del Greco Francesco Chianese (interdetto per sei mesi), che avrebbe tradito la consegna del silenzio, dopo aver ricevuto un decreto di esibizione di atti da parte dei carabinieri. Nel decreto erano riportati il numero del procedimento penale, il magistrato procedente e la polizia giudiziaria delegata, notizie poi girate all’imprenditore De Vito. Uno dei tanti momenti di contatto tra mondi solo apparentemente diversi, che vedono ora sotto inchiesta professionisti e imprenditori, carabinieri e camorristi patentati.
Il Mattino