C'è un intero spaccato criminale in quelle seicento e passa pagine che tengono in carcere trenta presunti camorristi. Armi e scissioni, droga e soldi, faide interne e...
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Inchiesta coordinata dal capo della Dda di Napoli, il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli, sono trenta gli arresti scattati la notte scorsa. Non se l'aspettavano, lì a Napoli ovest, a poche ore dalla conclusione del match del Napoli a Liverpool. Sono finiti così in cella i presunti esponenti della nuova cosca egemone sul territorio, vale a dire Alfredo Vigilia, Alfredo Junior Vigilia, Luigi e Pasquale Vigilia, Antonio Vigilia, ma anche Silvio De Rosa, Antonio Di Napoli, Carmine Fenderico, Cesare Mautone, Vincenzo Mennone, Eduardo Persichino, Simone Sorianello. Alessandro Tortra, Antonio Bellopede, Umberto Calafiore, Mariano Ciotola, Fortunato Corteggiano, Gennaro Della Corte, Luigi Diana, Giuseppe Diana, Gennaro Giaquinto, Giuseppe Mazziotti, Francesco Mazziotti, Salvatore Mazziotti, Cristian Monaco, Ciro Monfrecola, Salvatore Paolillo, Maria Puccinelli, Giuseppe Pipola, Elena Bordino. Traffico di droga, armi sono le accuse raccolte dal gip Chiara Bardi, al termine di indagini che fanno leva soprattutto su una fitta trama di intercettazioni telefoniche e ambientali. Agli atti c'è un ordine che arriva dal carcere, che viene ricondotto dagli inquirenti ad Antonio Scognamillo, che avrebbe imposto ai suoi di non parlare, anzi, di «parlare senza fare nomi». E non è un caso che sin dalle prime battute investigative ci sono decine di soprannomi, di alias, che rappresentano un modo attraverso il quale le decine di indagati vengono di volta in volta identificati. Sono i soprannomi a consentire di unire un nome a una utenza telefonica, secondo la ricostruzione del pool anticamorra: Peppa pig, Lucchetta, Corteccia, moneta, cuneglia, maffettone, cocò, popolin, o ntè ed altri ancora sono i modi attraverso i quali la camorra prova a resistere alle indagini.
Armi, droga, il controllo dell'edilizia popolare, un'occupazione militare del territorio, anche grazie ai rapporti «porosi» tra il mondo penitenziario e la realtà criminale della periferia occidentale. Negli anni, il clan aveva creato un sistema di spaccio a domicilio: oltre alle piazze tradizionali, anche pusher fattorini, con la droga che arrivava fino in casa. Accertate cessioni di cocaina, marijuana, hashish, skunk, amnesia. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino