Camorra, 40 anni fa l'urlo dei vescovi ma poco è cambiato

Camorra, 40 anni fa l'urlo dei vescovi ma poco è cambiato
Sono trascorsi quarant'anni dal documento dei vescovi campani Per amore del mio popolo, non tacerò che segnò una svolta storica nella Chiesa, come ricorda in...

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Sono trascorsi quarant'anni dal documento dei vescovi campani Per amore del mio popolo, non tacerò che segnò una svolta storica nella Chiesa, come ricorda in prima pagina monsignor Antonio Di Donna, presidente della Conferenza episcopale campana. Per la prima volta, i sacerdoti riconoscevano che il confine tra religiosità e camorra non sempre appariva netto. Denunciavano quindi che le feste patronali venivano quasi sempre organizzate dal boss di turno o i matrimoni dei rampolli dei clan si trasformavano spesso nel trionfo del potere mafioso. Un po' come accade da qualche anno, con gli altarini dedicati alle vittime delle faide che hanno invaso i vicoli di Napoli, tanto da fare dire al procuratore generale della corte di Appello, Luigi Riello, che troppi don Abbondio si nascondono ancora in sacrestia. Un'accusa che ha animato per mesi il dibattito ma anche il segnale di come la memoria collettiva sia andata perduta.

L'urlo dei vescovi campani nel 1982 schierò invece i cattolici senza tentennamenti sul fronte della lotta ai boss, quando i silenzi erano più fitti di oggi e l'omertà era un muro invalicabile. Un documento dirompente le cui basi furono poste nel corso di un convegno della Caritas a Maiori, trasformato in una lettera indirizzata alla società dall'allora vescovo di Acerra, don Antonio Riboldi arrivato dal Belice terremotato appena da qualche anno e vissuto all'interno della Conferenza episcopale campana un po' come un intruso. Decisiva si rivelò la collaborazione con Guerino Grimaldi, a sua volta vescovo di Nola e più avvezzo nel gestire gli equilibri interni al clero. Quello scritto, di cui pubblichiamo alcuni stralci, vagò per settimane tra le due diocesi per limare qualche pensiero o smussare accuse. Il 29 giugno del 1982, dopo essere rimasto per qualche giorno sulla scrivania dal cardinale di Napoli, Corrado Ursi, la lettera venne distribuita in tutte le parrocchie della Campania. 

Per la prima volta i vescovi accusavano la politica di fare poco o nulla per il Mezzogiorno e soprattutto definivano fondati taluni sospetti di collusione tra amministratori e camorristi. Non mancava una dura e rivoluzionaria autocritica per i tanti sacerdoti silenti o compiacenti: «La camorra - scrivevano i vescovi - ha persino inserito i suoi tentacoli nella vita sacramentale attraverso la distorsione della figura del padrino di battesimo, di cresima e di matrimonio, legando a sé creature ignare con le loro famiglie e coppie di sposi, più o meno conniventi, con il loro parentado».

Trascorsero cinque mesi e circa mille giovani, il 12 novembre, marciarono a Ottaviano, guidati da don Riboldi, per sfidare il boss Raffaele Cutolo a casa sua.

La forza della lettera si rivelò dirompente. E quando fu ripresa nove anni dopo dai parroci di Casal di Principe, costò la vita a don Giuseppe Diana, che proprio nell'82 prendeva i voti. Il sacerdote, ucciso dai Casalesi, conosceva a memoria il documento e ne aveva compreso il valore perché sapeva che quelle parole avevano contribuito a generare un vasto fronte anticamorra che travalicava di gran lunga i confini della Chiesa: c'erano il Pci guidato da Bassolino, il sindacato ma protagonisti furono gli studenti che diedero vita al più imponente movimento di lotta nella storia del Mezzogiorno. Il 17 dicembre dell'82 diecimila ragazzi partiti da Somma Vesuviana invasero nuovamente il feudo di Cutolo e l'11 febbraio dell'anno successivo a Napoli arrivarono in centomila da tutta Italia per dire no a mafia, camorra e ndragheta. 

A distanza di quarant'anni, Per amore del mio popolo, non tacerò resta drammaticamente attuale, il terribile segnale di come la lotta alla criminalità abbia subito un micidiale arretramento. Tre Consigli comunali sono stati sciolti per camorra negli ultimi cento giorni, gli studenti del Napoletano in un questionario distribuito dal Mattino hanno risposto di conoscere più Cutolo che don Diana, addirittura una discreta percentuale tra loro ha definito persona rispettabile un boss. Inutile a questo punto chiedere se hanno mai letto il documento dei vescovi o se qualche insegnante ne ha parlato loro in classe. Ricordare dunque il quarantennale dell'urlo della Chiesa campana non è un esercizio della memoria ma uno stringente impegno per il presente. 

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Il Mattino