Ciro Mariano, l'ex boss dei Quartieri Spagnoli: «Basta stese, non fate come me»

È un uomo libero, dopo 30 anni complessivi di carcere, di cui 13 al 41-bis tra Asinara, Cuneo, Parma, Pianosa e Sulmona. Un uomo libero, nella sua casa ai Quartieri...

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È un uomo libero, dopo 30 anni complessivi di carcere, di cui 13 al 41-bis tra Asinara, Cuneo, Parma, Pianosa e Sulmona. Un uomo libero, nella sua casa ai Quartieri spagnoli dove vive con la moglie, sottoposto per 4 anni a sorveglianza di polizia e altri 5 con obbligo di dimora a Napoli. È Ciro Mariano, 69 anni a novembre, l'uomo che per anni è stato il capoclan dei Quartieri spagnoli. Cinque figli oggi d'età tra i 50 e i 30 anni, due volte bisnonno, sta raccogliendo appunti per un libro sulla sua vita da camorrista. Casa all'ultimo piano senza ascensore, alla parete la foto del matrimonio del fratello con cerimonia alla Cascine, scala d'accesso a un soppalco, vetrinetta con file di bicchieri, parla con calma senza rinnegare un passato da cui, però dice, «sono ormai lontano».

 

Ciro Mariano, cosa sono per lei oggi i Quartieri spagnoli?
«I vicoli e le strade dove sono nato e cresciuto da scugnizzo. Quando tornai due anni fa, tutti mi fecero festa perché mi ricordavano come il Barracano del sindaco del rione Sanità di De Filippo. Da capoclan mettevo pace, aiutavo chi ne aveva bisogno, vietavo l'eroina e le estorsioni ai Quartieri».

Non è un'immagine troppo oleografica per uno scenario criminale di sangue?
«Era così che mi consideravo da capoclan. A Napoli, la camorra non esiste più. Non c'è più, come dico io, la malavita. Ci sono bande di ragazzi che fanno sciocchezze e a volte per questo diventano pericolosi, perché possono fare vittime anche tra persone estranee al sistema. Fanno le stese, che sono solo tarantelle per fare bordello, per apparire, senza alcun senso».

Si sente ancora a casa ai Quartieri spagnoli?
«Sì, è una zona particolare di Napoli. I quartierini si conoscono tutti e si rispettano, la gente mi vuole bene anche se ogni tanto è venuto qualche ragazzo qui sotto a fare tarantelle inutili. Io voglio stare tranquillo, sono fuori. Cerco di spiegare che possono guadagnare di più lavorando onestamente, mentre si sbattono per due-tre grammi di droga. Se fanno sciocchezze, rischiano di allontanare i turisti che sono comparsi anche ai Quartieri e portano guadagni».

La chiamano sempre o picuozzo?
«È il mio soprannome. Me lo diede da piccolo mia madre, perché ero un bambino tranquillo che dove lo mettevi lì restava. Ne ho sentite tante su questo soprannome, la versione giusta è la mia».

Condivide la scelta di suo fratello Marco, diventato collaboratore di giustizia?
«No, ho troncato ogni rapporto con lui, come ha fatto mio fratello Salvatore che sta scontando l'ergastolo. Quando è tornato ai Quartieri, Marco ha fatto solo sciocchezze, ha rovinato i miei figli che prima non avevano mai avuto problemi malavitosi. Per colpa sua, sono finiti in carcere, ora sono di nuovo liberi».

Non ha mai pensato di diventare anche lei un pentito?
«Io penso che chi ha commesso reati in maniera cosciente, provocando sofferenza, deve assumersene le responsabilità fino in fondo. E, per come la vedo io, significa farsi tutto il carcere senza sconti».

Non ha reddito personale?
«No, non posso aprire un'attività perché subito scatterebbero controlli, diffidenze. Vivo con la pensione di mia moglie. Credo che, per chi ha scontato tutta la sua condanna, il reinserimento diventa difficile e pieno di ostacoli».

Come ha vissuto gli anni di carcere?
«Con rassegnazione. Rischiai la morte ai tempi delle guerre tra Nco e Nf. Da Pianosa, ci portarono a Napoli per assistere ad un processo con una maggioranza di detenuti cutoliani. Noi della Nf eravamo solo 5-6. Ci salvò Pasquale D'Amico o cartunaro, che denunciò alle guardie l'ordine della Nco di ucciderci, temendo le reazioni della Nf contro la sua famiglia».

Non pensa mai ai morti provocati dalle guerre in cui è stato protagonista?
«Sì, mi dispiace e mi pesano, ma credo che con la mia detenzione abbia pagato il conto con la giustizia».

Si considera un ex capoclan?
«Mi considero uno scugnizzo, cresciuto per strada. Un quartierino che, a 16 anni, reagì a un cazzotto dato con una pietra sparando. Avevo già la pistola. Con altri scugnizzi dei Quartieri, avevamo l'idea di non farci mai mettere i piedi in testa. Ci buttammo nelle rapine alle banche. Dopo una rapina a Casal di Principe in cui avemmo anche una violenta sparatoria, ci inserimmo nei guadagni del contrabbando di sigarette con l'aiuto di Ciro Russo 'o fascista».

Una carriera criminale, prima da rapinatore e poi da contrabbandiere?
«Una scelta di vita, pagata con il carcere. Entrammo nel giro del contrabbando, a Napoli monopolizzato da Zaza e dai Giuliano di Forcella. Poi, nel 1979, Ciro Russo fu ucciso al bar Miranapoli da un killer vestito da donna. Allora capii che o io o loro, che quando si fanno certe scelte si è sempre in guerra e bisogna difendersi».

Erano gli anni violenti della guerra tra Nco e Nf?
«Sì, anche attraverso gli appoggi di Nicola Nuzzo ero affiliato alla Nco. Eravamo 30-40 quartierini. Nel carcere di Poggioreale, giravano molte armi e la Nco progettò di mettere delle bombe nelle celle del padiglione Salerno, dove c'erano i capi della Nf. Fu allora che, facendo capire a Nuzzo che non ero un dissociato ma che non condividevo certe scelte, passai con la Nf».

Come avvenne?
«Ci fu una riunione al Pallonetto, con tutti i capi della Nf e comunicai la mia scelta».

Che rapporti aveva con i Giuliano, che controllavano gran parte dei guadagni illegali a Napoli?
«Prima di tensione, poi di accordo. Un giorno mi dissero che Luigi Giuliano, Lovigino, mi aspettava da solo ai Quartieri. Mi venne incontro con dei fiori e mi disse, non dobbiamo farci la guerra ma regalarci solo fiori. Gli dissi che sarei andato a trovarlo a Forcella, non lo feci. Ma quell'episodio sanciva il mio riconoscimento negli equilibri della camorra napoletana e proprio da Lovigino che era un megalomane, al punto da possedere un trono a casa, dove si sedeva in pelliccia».

Quali erano quegli equilibri criminali?
«La divisione della città in tre quote. I Giuliano a Forcella e centro antico, noi ai Quartieri, i Licciardi a Secondigliano. Tre quote uguali di guadagni, con rispetto di zone di competenza e gli altri clan a noi collegati. Tra le varie zone, a me spettava anche Chiaia e ottenni un pizzo di circa un miliardo di lire sulla Ltr, il tram veloce, e c'erano quote suddivise anche sul porto».

Che rapporti aveva con gli altri aspiranti boss dei Quartieri spagnoli?
«Con Mario Savio abbiamo iniziato insieme. Quando passai con la Nf, lui era contrario. Era ricoverato al padiglione Palermo del Cardarelli, quello riservato ai detenuti e gli andai a parlare. Mi disse, non è che hai problemi? Io risposi di no, ci vedemmo. Entrai tranquillamente con due pistole, anche se ero latitante».

E con i Di Biase, i Faiano?
«Entrammo in guerra, perché non volevano sottostare alle nostre decisioni. Dissi, ma come voi siete dei Quartieri e state contro? Fu una contrapposizione che divenne anche violenta».

Il clan Mariano faceva le estorsioni a Chiaia?
«Io non ordinavo estorsioni, specie ai Quartieri. Che senso aveva togliere guadagni ai commercianti, quando si guadagnavano tantissimi soldi con la Ltr. Usavano il mio nome. E poi c'era il totoclandestino».

Non era un affare illegale dei Giuliano?
«Furono loro a inventarlo e arrivarono a guadagnarci anche 700 milioni a settimana. Il loro cassiere era Giuseppe Avagliano, detto o magazzese. Stabilimmo che si poteva giocare e scommettere non solo a Forcella, ma anche ai Quartieri spagnoli».

Che influenza ha avuto la sua famiglia sulla sua scelta?
«Mia moglie è una brava donna, che ha cresciuto i figli e sapeva solo che mi volevano ammazzare. Li ho tenuti sempre fuori, a casa tornavo raramente. Mio padre era un custode del Pontano. Sono stati tutti vittime della mia scelta».

Ha avuto rapporti con esponenti politici?
«Mai, neanche a livello locale. Sono stato strumentalizzato, mai conosciuto politici».

Cosa dice ai giovani di Napoli, che vedono nel crimine una scelta per il futuro?

«Ho scritto in carcere una poesia, 'a supplica, in cui dico che questa vita non è cosa, che ha solo spine e nessuna rosa. Quando finiscono in carcere, questi ragazzi sono abbandonati e trovano solo esempi negativi. Insomma, dico, ho pagato e scontato le mie colpe, ma i ragazzi non devono fare la scelta che feci io perché non porta da nessuna parte.  Leggi l'articolo completo su
Il Mattino