Il valore d’impresa da salvaguardare

Il valore d’impresa da salvaguardare
Utile ed efficace l’inchiesta di Giuseppe Grimaldi, pubblicata ieri sul «Mattino», su un campione di immobili confiscati ai principali clan di camorra di Napoli...

OFFERTA SPECIALE

2 ANNI
99,98€
40€
Per 2 anni
SCEGLI ORA
OFFERTA FLASH
ANNUALE
49,99€
19€
Per 1 anno
SCEGLI ORA
 
MENSILE
4,99€
1€ AL MESE
Per 3 mesi
SCEGLI ORA

OFFERTA SPECIALE

OFFERTA SPECIALE
MENSILE
4,99€
1€ AL MESE
Per 3 mesi
SCEGLI ORA
 
ANNUALE
49,99€
11,99€
Per 1 anno
SCEGLI ORA
2 ANNI
99,98€
29€
Per 2 anni
SCEGLI ORA
OFFERTA SPECIALE

Tutto il sito - Mese

6,99€ 1 € al mese x 12 mesi

Poi solo 4,99€ invece di 6,99€/mese

oppure
1€ al mese per 3 mesi

Tutto il sito - Anno

79,99€ 9,99 € per 1 anno

Poi solo 49,99€ invece di 79,99€/anno
Utile ed efficace l’inchiesta di Giuseppe Grimaldi, pubblicata ieri sul «Mattino», su un campione di immobili confiscati ai principali clan di camorra di Napoli città e affidati alla gestione di organizzazioni del terzo settore. Nell’80 % dei casi il giornalista non ha trovato in sede nessun rappresentante degli enti affidatari, né ha potuto appurare lo svolgimento quotidiano e reale delle attività sociali per le quali il bene era stato assegnato.


In questo modo il significato profondo della legge sul sequestro e la confisca dei beni ai mafiosi viene del tutto vanificata. Perché essa voleva fornire una particolare pedagogia della legalità: ciò che è stato acquisto con il sangue e con la violenza viene restituito alla collettività attraverso l’azione decisa delle istituzioni statali, trasformando quelle proprietà private dei criminali in servizi pubblici, in attività sociali per il quartiere o per particolari categorie svantaggiate. E proprio per le grandi ambizioni e implicazioni della legge in questione è d’obbligo una straordinaria serietà nel gestire questo messaggio da parte dei beneficiari, e un’altrettanta severità da parte degli enti locali che li scelgono. Il Comune di Napoli deve svolgere tutte le verifiche del caso e procedere, se necessario, alla revoca della concessione dell’immobile a quelle associazioni ed enti che non si sono mostrati all’altezza della responsabilità civile loro affidata. La superficialità, l’approssimazione, il venir meno agli impegni, o il coprire con roboanti progetti la nullità dell’azione, veicola un contromessaggio dalle gravi conseguenze, consolidando il convincimento che alla inaccettabile proprietà di beni in mano a criminali fa seguito il degrado una volta che diventano pubblici.

E stiamo parlando degli immobili confiscati, questione teoricamente più semplice da gestire. Ancora più disarmante è la situazione delle vere e proprie imprese e attività economiche che prima del sequestro e della confisca venivano guidate dai criminali o da loro prestanomi. 

In questo caso la domanda semplice è la seguente: perché le imprese che prima davano lavoro una volta prese dallo Stato non riescono più a tornare sul mercato? I sequestri e le confische stanno contribuendo, con un effetto indesiderato, ad impoverire l’economia al posto di riattivarla?  Infatti, si è dimostrato assolutamente complicato rimettere in moto le imprese sequestrate e confiscate: in media ci si riesce in meno del 10% dei casi. 

Ma le difficoltà nel riutilizzo sono inerenti alla norma, inerenti al comportamento della magistratura, oppure c’è anche un problema teorico mai risolto alla base della legge e della sua applicazione? Se in un qualsiasi altro settore ci fossero migliaia di imprese che prima lavoravano, stavano sul mercato, procuravano reddito e lavoro e successivamente non producono più, non danno più reddito e lavoro, tutto ciò farebbe discutere per mesi e mesi i partiti, i sindacati, le istituzioni. Invece, in questo caso, la discussione resta tra gli addetti ai lavori e non assume mai l’importanza economica e sociale che merita. Vi pare normale nelle attuali condizioni dell’economia meridionale? E non può trattarsi solo di inadempienze amministrative e burocratiche. 

Va ricordato che quando falliscono imprese «legali» per comportamenti illegali e fraudolenti dei loro titolari (non considerati criminali) di queste imprese lo Stato si occupa. Dopo la vicenda Parmalat, sono state varate leggi apposite per consentire che imprese nelle stesse condizioni potessero tornare sul mercato. 

Chiunque ha a cuore il funzionamento dell’economia sa che è fondamentale non fermare un’impresa, al di là di chi e di come è stata gestita, perché l’impresa prima che una proprietà privata è anche un bene sociale. Perciò in questi casi giuridicamente, moralmente ed economicamente si opera per separare le responsabilità penali individuali (di qualsiasi tipo esse siano) dalle conseguenze collettive che quei reati comportano. Cioè si separa la proprietà dall’attività. Insomma, è possibile punire l’imprenditore e salvare il lavoro e la ricchezza collettiva che l’impresa produce. 

Non succede, invece, la stessa cosa con le imprese mafiose, non si applica nei fatti lo stesso principio. Perché? Che cosa c’è di diverso nell’impresa mafiosa rispetto a quella legale che si è comportata illegalmente? E qui, in teoria, c’è un aspetto importante da non sottovalutare. Nell’impresa mafiosa c’è un «di più»: l’uso della violenza o la minaccia della violenza nella competizione di mercato. Ed è vero che in genere le imprese mafiose, grazie alla violenza, hanno occupato fette di mercato che non avrebbero potuto occupare senza far ricorso ad essa. Per cui se quell’impresa si è procurata dei vantaggi competitivi usando la violenza, lo Stato che la confisca e la toglie dal mercato fa solo un piacere agli altri competitori che rispettano le leggi. Insomma, distruggere un’impresa mafiosa è più utile per la collettività che farla tornare a funzionare. In questo modo il posto da essa occupato viene preso da imprenditori a cui con la violenza aveva sottratto clienti e affari. 

Ma le cose non sono così semplici. Un’impresa, anche se mafiosa, produce o no merci? Fa lavorare persone? Fa acquisti di altre merci e coinvolge altri soggetti economici, fa circolare la ricchezza? E in questo caso, per quelli che ci lavorano e ci girano attorno, quella è mafia o è opportunità economica?


Non è un problema semplice colpire i mafiosi senza danneggiare l’impresa e coloro che di quella attività ne hanno beneficiato per via legale (lavoratori, impiegati, fornitori, etc.). Ma anche in questo caso si deve applicare lo stesso criterio utilizzato per le imprese legali che si sono comportate illegalmente, cioè bisogna separare la proprietà dall’attività. Insomma, si deve interrompere la ricchezza del mafioso non quella prodotta dalla sua azienda. Credo che questa sia una seria iniziativa antimafiosa. Recentemente la Fondazione con il Sud di Carlo Borgomeo ha avanzato proposte interessantissime, così come proposte serie sono state illustrate nell’ultimo libro di Costantino Visconti. È tempo di una più radicale messa in discussione dell’applicazione di una legge fondamentale come quella della confisca dei beni e delle imprese dei mafiosi. Ma sempre con la volontà di dimostrare che delinquere non conviene. Se invece, al di là delle intenzioni, un’impresa funziona quando è gestito dai clan e chiude quando rientra nelle mani dello Stato, tutta la pedagogia dell’antimafia viene meno.

Leggi l'articolo completo su
Il Mattino