"Vuie nun ve site scurdato ’o mare nuosto, chistu bello mare ’e Napule. ’Sta vesione blù ve cumpare e scumpare ancora annanz’a...
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A volte, per una strana ed inconsapevole proiezione, pensiamo che il mare esista soltanto d’estate e si esprima nel luccichio dei colori, nell’affollamento delle spiagge, nella temperatura tiepida e ristoratrice delle acque. Matilde Serao racconta, invece, con straordinaria forza espressiva, le magie della costa napoletana, osservata e vissuta nelle differenti stagioni dell’anno: il trascorre del tempo riflette, così, i percorsi altalenanti dell’animo umano. Nella primavera l’attesa e la speranza, nell’estate l’esplosione sensuale, nell’autunno la imparò a lanciare sempre il suo sguardo verso l’orizzonte, dove la linea tra il cielo e la superficie dell’acqua non si può più distinguere. Sin da quando era piccola, la Serao aveva conosciuto la Napoli reale, ma anche quella fantastica: attraverso le storie narrate dalla raffinata madre greca, la scrittrice aveva capito che tante leggende secolari sono nascoste negli abissi del golfo. Per questo, divenne capace di distinguere le differenti personalità del mare partenopeo: l’allegria di Mergellina, la solitudine del Chiatamone, il dolore di Posillipo. Qual mare era proprio come l’uomo: “uno, nessuno e centomila”, lunatico e frammentario. Il golfo di Napoli non era semplicemente una immagine da cartolina, ma partecipava di un’esistenza lunghissima, complessa, fatta di flussi e riflussi. E di stagioni particolari, irripetibili, contraddittorie. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino