Coronavirus a Napoli, l'odissea di Docimo: «Io, chirurgo infetto mi sentivo invincibile»

Coronavirus a Napoli, l'odissea di Docimo: «Io, chirurgo infetto mi sentivo invincibile»
Ludovico Docimo, 59 anni, ordinario di Chirurgia alla Vanvitelli è appena stato dimesso dal Cotugno dopo 12 giorni di terapia intensiva. Un'esperienza durissima simile...

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Ludovico Docimo, 59 anni, ordinario di Chirurgia alla Vanvitelli è appena stato dimesso dal Cotugno dopo 12 giorni di terapia intensiva. Un'esperienza durissima simile a quella di tanti malati di Coronavirus ma vissuta con gli occhi di un medico.

 
Ci racconti come è iniziata?
«Avevo avuto un contatto con una persona positiva, andai al Cotugno per il tampone. Risultò negativo ed ero tranquillo. Dopo una decina di giorni, di sera, mi venne un brivido di freddo: era la febbre. Poteva essere un'influenza e invece si trattava Di Covid-19».

Il suo stato d'animo?
«Da medico intuisci che c'è qualcosa di serio e sconosciuto. Un chirurgo pensa di essere inattaccabile forse per quell'istinto a rispettare la sterilità».

E invece?
«All'improvviso scopri di essere come gli altri, il nemico invisibile ha colpito anche te, ti ritrovi solo e debole. Pensi che non hai preso le misure giuste, non te ne hanno dato i mezzi opportuni».

Come si è curato?
«I primi giorni ho preso antipiretici poi ho capito che stavo peggio ed ho iniziato ad assumere la Clorochina».

Dove l'ha trovata?
«In farmacia. Con difficoltà ma l'ho trovata. Tra l'altro costa pochissimo».

Quando sono cambiate le cose?
«Quando è sorta una tosse stizzosa e molto fastidiosa. Non passava e sono venuti a farmi il tampone a casa. Ero positivo come temevo».

Quando è avvenuto il ricovero?
«Ero peggiorato, ho chiamato il 118 e mi hanno portato al Cotugno. In ambulanza ero solo. Sai che inizia forse la tua battaglia più difficile, tante emozioni, la famiglia, gli affetti».

Cosa cambia nell'essere dall'altra parte?
«Vedi quanto è bello il sorriso di chi ti assiste. Percorsi obbligati, guardie giurate. Per chi è del mestiere capisci lo sforzo per trasformare un ospedale come il Cotugno in un bunker d'efficienza. L'ascensore scende: vuol dire che hai bisogno di un'assistenza particolare. Dopo 2 giorni continui a scendere, cambi reparto, hai bisogno di cure più intense. Ho fatto il paziente. Il reparto diretto da Giuseppe Fiorentino è un gioiello».

Le sue giornate?
«Da recluso: il giornale e il cellulare come contatto col mondo. Gli infermieri e i medici comunicano con un altoparlante. Ogni tanto arrivavano per i prelievi».

Quali terapie?
«Tutte, compreso il Tolicizumab e il cortisone. I protocolli sono sperimentali. Con la maschera l'ossigeno ti arriva agli occhi. Ad un certo punto mi hanno fatto capire che mi avrebbero intubato».

Cosa ha pensato di quello che stava accadendo fuori?
«Che si fa un gran palare di mascherine, se è meglio l'alcol o l'amuchina, mentre sfugge l'essenza. Le cure, i fattori clinici, i protocolli migliori, l'epidemiologia, l'origine e l'evoluzione del virus. Questa è come una guerra e noi siamo indifesi».

Cosa suggerisce?

«Spiegare l'uso delle mascherine, ad esempio. In ospedale gli infermieri indossano quelle chirurgiche al contrario perché così si proteggono di più. Tanti medici in Italia si sono contagiati e sono morti. Non è tollerabile. Bisogna evitare ogni commistione. Se c'è il Cotugno per il Covid non ci deve essere il Monaldi».  Leggi l'articolo completo su
Il Mattino