Santa Maradona, dal San Carlo a Palazzo San Giacomo, e ora vediamo chi polemizza anche per questo. Diego Armando, dopo essere andato al Massimo lunedì sera, tornerà...
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L’affaire, si spera, metterà d’accordo gomorristi e pizzofalconisti, ma, soprattutto Saviano e De Magistris: è stato il sindaco ieri ad annunciare la decisione di concedergli la cittadinanza onoraria e di organizzare per la Mano de Dios una grande festa popolare. Trent’anni fa non ci fu bisogno di organizzare niente, bastò scendere in strada, portandosi dietro gli amici che da tutto il mondo sapevano che in quel momento bisognava essere a Napoli e ballare con Diego, come in un primo tango sulle rive del Golfo. Poi venne anche il secondo, poi...
Poi... Bando alle malinconie, anche se le feste sono più belle quando si vince, quando si gioca con El Pibe de Oro a trascinare tutti. Trent’anni dopo questa è l’unica festa a nostra disposizione, impossibile chiedere indietro quei giorni e quei gol, proprio come i nostri capelli caduti, proprio come gli amori persi per strada, per colpa, per incuranza, per altri amori.
Ieri, prima che de Magistris intonasse il suo Te Diegum, Teresa De Sio aveva presentato il suo disco-tributo a Pino Daniele davanti al toro Farnese, nella maestosa sala del Mann. Povero quel paese che ha bisogno di eroi, certo. Ma ancor più povero quel paese che non sa riconoscere i suoi poeti, armati di pallone o di chitarra, i suoi vendicator cortesi, i suoi scugnizzi cresciuti bene, anzi benissimo. Aprire il San Carlo a Diego, il museo archeologico al re e alla regina del newpolitan power, è cosa buona e giusta, aldilà del valore dello spettacolo di Alessandro Siani che aprirà le celebrazioni maradoniane, aldilà del valore artistico di «Teresa canta Pino».
E che ora non degeneri in cagnara, che la festa popolare sia festa popolare, come, e più, di quanto lo è stata quella per Sophia Loren, altra napoletana ad honorem, altra napoletana da sempre e per sempre. Perché Napule è di sicuro tante cose, ma ‘na finta ‘e Maradona squaglia ‘o sanghe dint’’e vene. Anche trent’anni dopo.
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Il Mattino