Il mare bagna i napoletani (e pure gli stranieri), ma continua a non bagnare Napoli. La città fatica a strutturarsi come capitale anche balneare, con un'acqua ormai...
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Scogli sui quali si tengono le Olimpiadi della tintarella. Per capire quanto Napoli sia ormai multietnica, occorre vederla quando indossa il costume che le si addice, ma che scivola da ogni parte, perché è stinto, slabbrato, ricucito a fatica. Il sole, imperterrito, bagna Napoli, quello che il mare non fa o fa non molte limitazioni. E l'asciuga, senza sanarne i pori. Cinesi, ma anche indigeni provetti, attorno agli scarichi di via Caracciolo, si applicano a pescare con il retino gli sfuggenti mazzoni: ce ne sono a branchi nell'acqua ristagnante, sporca e maleodorante tra la scogliera e il parapetto borbonico; gruppi di cingalesi e indiani, dalla pelle ambrata, si schizzano come bambini a Mappatella Beach; attempate slave con la pelle di gambero leggono libri o giornali arrivati da casa o smanettano sullo smartphone protette da un ombrellone piantato alla buona; una donna islamica con un velo che la copre fino alle scarpe, ma niente burkini, è acquattata con il compagno in slip scuro in un angolo meno rovente; gruppi di ragazzi, qualcuno abbastanza cresciuto, sguazzano nelle fontane della Rotonda, adibite come ogni anno a piscina gratuita, bassa, ma fresca a sufficienza; giovani africani si esercitano con flessioni sui massi abbaglianti, incuranti della canicola; e, naturalmente, le coriacee iguane ambosesso della Torretta e del Pallonetto di Santa Lucia espongono il loro color cioccolato inaugurato già a maggio e perfezionano l'abbronzatura, immobili per ore sulle scomode postazioni. Il mare Napoli la bagna così, con l'abitudine radicata a farsi spazio, trovando un minimo di refrigerio nella granita comprata dal folkloristico carrettino che scende fin giù alla Rotonda.
È il solito paesaggio, mosso e immobile, dove, però, a occhio, l'affollamento non tocca gli apici degli anni passati, almeno a Mappatella Beach. Certo, non mancano gli habitué, come la confraternita del vino bianco alla percoca, con la polpa gialla in bella mostra dentro la caraffa appoggiata sul tavolino pieghevole sotto il tendone blu issato sulla striscia di sabbia confinante con via Caracciolo. I fichi selvatici cresciuti tra gli scogli sono una macchia di colore che spande inaspettati zaffate di orto maturo, ma frutti non ce ne sono. Gli alberi rilasciano appena una fetta di ombra che tutti rifuggono, assetati di sole. Di giorno manca il puzzo dell'arrosto unto dei furgoni-pub che piazzano le loro sedie e i loro tavolini di plastica fin dentro alle aiuole. Ma se ne vedono le tracce, appena s'imbocca viale Dohrn dal lato del Circolo del Tennis, con il marciapiedi inzevato dagli oli della frittura, sversato a secchiate persino sotto le innocenti roverelle, immaginandone di innaffiarle, ma avvelenando le radici.
Oltre c'è la Villa Comunale. Fa da retrobottega devastato alla vetrina incrinata. Il fu giardino pubblico non riesce a nascondere i segni del disastro, dei cantieri invasivi della Linea 6, in ritardo di 26 anni dal capolinea dei lavori, della Cassa Armonica in restauro da quattro anni, della Casina del Boschetto vandalizzata. Ma, se sapete accontentarvi, una lingua di rinfrescante venticello vi arriva e vi rigenera per qualche secondo. Qualcuno dovrebbe prendersi la briga di scrivere una «Guida ai refoli di Napoli», indicando i punti strategici. Meglio una app. Successo garantito. Le comitive di ucraine attempate non badano alle macerie del parco voluto da re Ferdinando e ampliato dall'irruente Murat. Mangiano, bevono e dormono nelle aiuole alle quali hanno consegnato un uso che in napoletani non hanno mai osato attribuire. Le hanno sdoganate loro, da anni. Sono affiancate, ma un po' più in disparte, da senzatetto sfusi. Uno qua, uno là, a debita distanza dagli chalet. Il mare sembra scomparso dall'orizzonte. Di sicuro è sparito dalla mente. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino