C’è chi ha perso il lavoro dopo quella notte. E c’è chi si sente miracolato, ma anche chi si dice «incazzato» perché costretto a...
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Parliamo di Dario, Antonio, Giuseppe, Pasquale, Eddy, ma anche Fabiana, Vincenza e Martina. Voci diverse, stessa strategia, a leggere l’ordine di cattura a carico dei quattro presunti killer entrati in azione all’alba del sei settembre del 2015, all’esterno del pub El Pocho, a pochi passi dalla chiesa San Vincenzo alla Sanità: a sentire le intercettazioni ambientali, si capisce che hanno le idee chiare sulla matrice dell’omicidio di Genny, sullo scenario in cui è maturato e sulla provenienza da Miano (quindi clan Lo Russo) degli otto killer entrati in azione quella mattina.
Sanno anche che la stesa in cui è maturato il delitto del 17enne era solo una risposta a un agguato consumato ore prima per ordine del boss Piero Esposito (poi ucciso), ma dinanzi agli inquirenti tacciono. Non dicono granché a proposito della pista principale, ripetono frasi che sembrano studiate a tavolino, ma non offrono indicazioni che potrebbero rivelarsi preziose. E non è tutto. Non hanno solo l’obiettivo di non immischiarsi, ma provano tutti a proteggere l’identità di un loro amico, uno che stava nel loro gruppetto, che quella sera era probabilmente armato e che viene indicato solo con un soprannome. Ragazzi incensurati, ma a conoscenza di una regola: indicare il nome del potenziale obiettivo (in quanto ritenuto di spessore criminale) significa indirizzare gli inquirenti nella pista giusta, quindi entrare nel vivo di un processo. Inchiesta coordinata dai pm Celeste Carrano, Enrica Parascandolo e Henry John Woodcock, in forza al pool del procuratore aggiunto Filippo Beatrice, agli arresti sono finiti Antonio Buono, Luigi Cutarelli, Ciro Perfetto, Mariano Torre.
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Il Mattino