Napoli, vessati dal racket: «Una vita sotto scorta, io e mio padre in esilio ma in aula a testa alta»

Napoli, vessati dal racket: «Una vita sotto scorta, io e mio padre in esilio ma in aula a testa alta»
Hanno cambiato vita, non senza una buona dose di nostalgia e amarezza d’animo, nella convinzione di aver agito nel giusto: non era più possibile accettare ricatti,...

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Hanno cambiato vita, non senza una buona dose di nostalgia e amarezza d’animo, nella convinzione di aver agito nel giusto: non era più possibile accettare ricatti, convivere con ogni genere di sopruso e - in modo più diretto - lavorare e fare sacrifici per assicurare una tangente al sistema camorristico cittadino. Due storie, due volti, una sola famiglia: un padre e un figlio, che si sono affacciati in un’aula di giustizia, per fare un gesto che ha un carattere rivoluzionario: costituirsi parte civile contro la camorra egemone a Napoli. Due imprenditori costretti a cambiare vita, che ritornano nella città che hanno abbandonato tre anni fa, rigorosamente scortati dal servizio di protezione. E lo fanno in un periodo in cui le immagini di bombe e omicidi tornano ad imporsi all’attualità cittadina e non solo, nello stesso periodo in cui il video di due incapucciati che puntano i mitra contro un bambino al ristorante mozzano il fiato all’opinione pubblica nazionale.

Eccoli, padre e figlio. Aula 116, due imprenditori, due generazioni diverse. Sono assistiti dall’avvocato napoletano Alessandro Motta, legale dell’associazione antiracket e antisura coordinata da Luigi Cuomo e hanno le idee chiare sull’importanza del proprio ruolo nel processo. Al Mattino, accettano di raccontare cosa si prova a vivere in esilio: «Una vita sotto scorta - spiegano -, lontano da Napoli, in località rigorosamente segreta, con gli impegni di tutti i giorni e un livello di ansia che sale quando si materializza un qualsiasi imprevisto. In che senso? «La mattina accompagni i figli a scuola, ma basta un’auto che si mette di traverso e sale la tensione. Niente. Poi passa, perché un po’ ci fai l’abitudine». Settima sezione gup, aula gremita, a giudizio c’è il gotha della camorra: boss Edoardo Contini, le sorelle Aieta, la famiglia Botta, in poche parole un pezzo di Alleanza di Secondigliano, indicato come il cartello egemone della Dda di Napoli. E loro due sono lì, tra ansie e determinazione, rabbia e voglia di voltare pagina. Non cercano pubblicità, accettano di parlare tramite il proprio legale, schermando nomi e dati sensibili: «Lavoravamo nel campo del turismo, della ricezione alberghiera.

Zona piazza Garibaldi, con tanto di convenzione con il Viminale, per ospitare gli immigrati, una vita col vento in poppa. Poi arrivano le minacce, le richieste di pizzo. All’inizio ci adeguiamo, decine di migliaia di euro in tangenti, fino al punto di rottura. Quale? Mio padre - spiega l’imprenditore più giovane - viene convocato a Secondigliano e picchiato. La misura era colma». Ma com’è la vita sotto scorta? Come girano le cose in località protetta? «Resti sempre incollato alla tua città, assisti da lontano, ti attacchi anche alle notizie meno importanti. Poi ti guardi attorno e ti accorgi di vivere in una cittadina tranquilla, al riparo da ogni genere di sopruso, con gente operosa. Sembra un altro pianeta. Ecco, a questo punto ti domandi: perché a Napoli non è possibile? Per quale motivo, da noi un fenomeno come il racket diventa naturale? Perché è normale assistere a gente che bussa alla tua porta per avere una parte dei tuoi incassi, del tuo lavoro?». 

Inchiesta condotta dal pm Ida Teresi, titolare delle inchieste che hanno colpito l’Alleanza di Secondigliano (nel 2014 e 2019, un centinaio di arresti), spunta la storia dell’albergo di piazza Garibaldi. E dei due imprenditori (non sono gli unici) che decidono di fidarsi delle istituzioni. Dal 2019, hanno atteso il giorno della prima udienza. Prima tappa, dinanzi al gup, per il rito abbreviato (che non prevede la conferma delle accuse nel corso del contraddittorio); anche se il momento clou, è dinanzi a una sezione del Tribunale, per il processo ordinario, quando sarà necessario rispondere alle domande delle parti e del giudice. Un evento decisivo, nel corso del quale i due ex manager alberghieri dovranno guardare negli occhi boss e gregari: «Denunciare significa partecipare a costruire un futuro diverso per i nostri figli, provare a vivere come nel luogo in cui siamo ospitati, senza pizzo, senza agguati. Ci auguriamo che siano in tanti a seguire il nostro gesto, facendo squadra contro la camorra». 

 

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Il Mattino