Il Tribunale di Napoli riconosce lo status di rifugiato a lesbica nigeriana

Il Tribunale di Napoli riconosce lo status di rifugiato a lesbica nigeriana
L'orientamento sessuale espone a rischio di discriminazione molte persone in diversi paesi del mondo. Con il provvedimento annotato, il Tribunale di Napoli, riconosce lo...

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L'orientamento sessuale espone a rischio di discriminazione molte persone in diversi paesi del mondo. Con il provvedimento annotato, il Tribunale di Napoli, riconosce lo status di rifugiato ad una donna lesbica di origine nigeriana a causa della sua dichiarata omosessualità.


La ragazza era scappata dal proprio paese nel 2015 dopo che il padre aveva saputo della sua omosessualità, per evitare il linciaggio e la morte ha attraversato il Niger e la Libia per approdare infine in Italia dove nel 2016 ha inoltrato la domanda di protezione internazionale.

Per la ragazza sussiste grave pericolo in caso di rientro in Patria, a causa del proprio orientamento sessuale, di persecuzione discriminatoria e essere sottoposto a pena detentiva molto elevata.

La domanda però è stata in un primo momento rigettata – si legge in una nota dell’Arcigay Napoli - dalla Commissione Territoriale di Crotone che ha considerato poco credibile il racconto della ragazza (acquisito attraverso una videoregistrazione). Lo scorso 10 novembre, infine, a seguito di un ricorso e alla convocazione personale della ragazza, il Tribunale di Napoli ha riconosciuto alla ragazza il diritto allo status di rifugiato.

«Una decisione molto importante – afferma l’Avvoccato Mara Biancamano, referente legale dello sportello MigraAntino di Arcigay Napoli – Il giudice ha ritenuto che non esistono parametri oggettivi ai quali si possa ancorare il giudizio sull’orientamento sessuale di un individuo, sicchè è corretto nel valutare l’attendibilità delle domande di protezione basate tenere conto di molteplici fattori tra i quali riveste notevole importanza quanto narrato dall’interessata in ordine alla scoperta del proprio orientamento sessuale e a quanto accaduto nel percorso effettuato nell’acquisizione di detta consapevolezza.  La prova, in sostanza, non può consistere in una allegazione materiale  o ‘medica’ come spesso è stato richiesto in passato dai giudici». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino