«Ma a che cosa serve la storia?». È la domanda che, prima o poi, puntuale, immancabile, qualche alunno mi rivolge, ogni anno. A parte il fatto che la scuola non...
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È quello che mi è venuto in mente vedendo gli sfregi ai monumenti cittadini: Cappella San Severo, piazza Plebiscito, Santa Chiara, San Domenico Maggiore, piazza del Gesù, il teatro San Carlo, la Galleria Umberto, e via elencando. Scritte, graffiti che sono un'affermazione, una rivendicazione arrogante del presente, ma soprattutto un rifiuto vandalico, iconoclastico del passato da parte di chi - quasi sempre ragazzini - di quel passato non sa praticamente nulla. Che tutto questo, poi, accada proprio in una città come Napoli, che fonda la sua identità sulla ricchissima stratificazione storica (tra le più affascinanti del mondo), è davvero un dato su cui riflettere. La globalizzazione dell'ignoranza miete le sue vittime soprattutto tra i più giovani e la scuola, naturalmente, è tra i primi imputati di questa catastrofe culturale.
Certo, non basta organizzare giornate della memoria, visite di istruzione o adottare un monumento, e però va detto pure che la scuola da sola non può fare molto di più per restituire a questi ragazzi il senso del passato, se poi tutto ciò che esiste fuori dalla scuola non aiuta, non sollecita a rendere questo passato capace di generare pratiche contemporanee, a loro volta promotrici di futuro. Detto in parole semplici: Napoli è una città che vive dentro la sua storia, ma se la memoria storica non alberga prima di tutto nella società civile e nelle sue istituzioni politiche e culturali, nella partecipazione attiva e responsabile dei cittadini adulti, come possiamo pretenderla nella quotidianità dei giovanissimi? La scritta che imbratta una piazza, un teatro, una fontana, una galleria, ci dice in fondo esattamente questo: esiste solo il presente, impresso nel vuoto, perché chi compie questo gesto non sa più riconoscere nient'altro al di là della sua stessa contingenza, niente al di fuori dell'hic et nunc. Dichiarazione terribile, che segna il rischio, altissimo, della fine di una civiltà. Non saper più riconoscere la presenza del passato attorno a noi, né interpretare la lingua viva di ciò che è stato - pietre, luoghi, architetture - significa rinunciare anche a qualsiasi progettualità di futuro. Ma chi dovrebbe garantire un futuro a questi giovani? Chi dovrebbe insegnargli che il passato è un bene comune da tutelare, una carta d'identità da difendere? Quegli sfregi, quelle scritte, sembrano allora condannare per primi noi, che non abbiamo saputo o voluto trasmettere, tramandare alle nuove generazioni il senso di appartenenza alla nostra storia, e trasformarla, questa nostra storia, in un progetto per la vita ancora di là da venire. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino