Se la topografia ha un suo linguaggio che va interpretato, allora bisogna provare a interrogarsi su ciò che sta succedendo alla nostra città. Quello che più...
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È la vera collettivizzazione dei beni pubblici. Non lo scopriamo certo oggi, con il matrimonio di Colombo, in che stato versano e da chi sono occupate le strade di Napoli, che sembra essersi trasformata nella peggiore e più lugubre caricatura di sé stessa, con il suo lungomare liberato, lo struscio di via Toledo, i folli ingorghi del sabato sera a Mergellina, le stese nei vicoli del centro storico, le risse ai baretti di una via Chiaia a luci spente. La topografia ha un suo linguaggio che va interpretato, dicevo.
E allora, proviamo a leggere oltre il fatto di colore: mi pare che abbia una carica simbolica altrettanto forte, di fronte a questo scempio generalizzato, che il centralissimo Maschio Angioino sia stato concesso per il matrimonio in stile Casamonica tra un neomelodico e la vedova di un boss, mentre la fiera del libro e dell’editoria, che si terrà dal 4 al 7 aprile, sarà arroccata a Castel Sant’Elmo, lassù, nel punto più alto della collina del Vomero.
La Napoli Città Libro mai come in questo momento appare così lontana, anche fisicamente, così complicata e disagevole da raggiungere. Quasi come se la cultura avesse abdicato, gettato la spugna, per chiudersi in sé stessa, assistendo impotente alla mutazione antropologica di una grande metropoli in un piccolo paese di sagre e cerimonie. Al di là dei meriti e delle evidenti buone intenzioni degli organizzatori, c’è da dire che come tutti i simboli, anche quello di una location appartata, chiusa in un castello difensivo, che sa tanto di torre d’avorio della cultura, può essere pericoloso per il messaggio che veicola in un momento storico così critico per la città. Ricorda un po’ la secessione dell’Aventino, un lasciar spazio e potere a una Napoli che fa del lazzarismo, della «malatolleranza» e del folclore il suo vessillo. Ma sotto questo lazzarismo, questa «malatolleranza» e questo folclore si nasconde, lo sappiamo bene, un cancro che non smette di divorare pezzi interi della città. Inutile lamentarsi con «Gomorra» e i gomorrismi, dare la colpa a Saviano, «rizelarsi» per l’immagine «tamarra» o criminale che diventa virale e fa il giro del mondo, o trincerarsi dietro la stucchevole difesa di «un’altra Napoli».
Quest’altra Napoli, se c’è, dimostri di esistere, venga fuori, alla luce del sole, per progettare, educare, coinvolgere, indicare percorsi, far circolare le idee. Questo significa fare cultura, una parola che, lo dimentichiamo troppo spesso, ha la sua origine nel latino «colere», ovvero coltivare la terra.
Bisogna gettare i semi, dunque, sporcandosi le mani di terra, e saper aspettare, aver cura, presenza, costanza. Lo sappiamo ancora fare? Lo vogliamo ancora fare? O la borghesia illuminata di questa città persisterà nel suo assordante silenzio, come ormai da decenni, arroccata anch’essa nella sua torre d’avorio fatta di cattedre universitarie, circoli intellettuali, piccole consorterie e albi professionali? Mi viene, allora in mente, pensando a tutta questa vicenda anche un po’ grottesca, quella famosa poesia di Kavafis, che a un certo punto dice: «Oggi arrivano i barbari / L’imperatore aspetta di ricevere / il loro capo. E anzi ha già disposto / l’offerta d’una pergamena. E là / gli ha scritto molti titoli ed epiteti». Solo che qui, a differenza che nella poesia, i barbari sono reali, e sono arrivati sul serio, mentre noi fingiamo di essercene accorti solo adesso. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino