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Guerra e caro prezzi: i conti non tornano. I costi dei prodotti della filiera alimentare, compresi quelli non legati all’orribile conflitto in corso da quasi 3 mesi nel cuore dell’Europa, sono aumentati ben oltre la crescita delle spese di produzione e trasporto. Tempi duri, insomma, per le famiglie e per gli imprenditori. A lanciare l’allarme sono la Fipe Campania e Confesercenti Franchising. Pranzo o cena «saliti mediamente del 15%, in funzione dell’aumento imposto da produttori e fornitori» per i consumatori napoletani. L’invasione russa dell’Ucraina, piombata a modificare l’agenda globale post-Covid, è diventata - come altre guerre - un pretesto per la speculazione. Il mercato bellico, purtroppo, cui si aggiungono i lockdown che bloccano le merci cinesi, è più lunatico del solito. Ma a prezzi più salati corrisponde una decrescita dei servizi: a complicare le cose c’è infatti la tara dell’inoccupazione, con hotel, b&b e ristoranti che, ai tempi del reddito di cittadinanza, faticano a trovare personale per fronteggiare il boom turistico in corso (mancano 16 mila dipendenti tra Napoli e provincia e circa 200mila in Italia). Solo ad aprile, spiegano dall’Unione Giovani Dottori Commercialisti di Napoli, «si riscontrano aumenti del 9% su base annua e fino al 40%».
Il food è l’attrazione più apprezzata dal turismo di massa che sceglie Partenope. Eppure, secondo il report Fipe, gli aumenti principali tra prima e dopo la guerra riguardano proprio la filiera alimentare. L’olio di girasole o arachidi, prodotti importati dall’Ucraina, sono aumentati del 70%, da 2,50 a 4.50 al litro. Aumento percentuale analogo per le farine. Ma, come anticipato, a schizzare sono anche i costi di prodotti che non hanno niente a che vedere con Kiev e dintorni. La mozzarella di bufala, prima dell’invasione, costava 10 euro al kg, oggi ne costa 12. Su questo e gli altri derivati del latte gli aumenti sono stati 3 (a febbraio, aprile e maggio, ognuno dei quali tra i 25 e i 50 centesimi). Caso emblematico è poi quello del pesce. La nafta per i motoscafi - spiega Fipe - è salita del 5%. Il costo del pesce, invece, è aumentato in media del 20%. Le vongole veraci costavano 20-24 euro al kg, oggi tra i 30-34. I calamari tra i 25 e 26 euro al kg, prima 16-18 euro. Schizzati anche i congelati: i polpi del Marocco sono passati da 12 a 16 al kg.
Molti aumenti non sono proporzionati a quelli dei costi di trasporto (calmierati dallo Stato), né geograficamente legati al conflitto. Come si giustifica allora l’impennata? «I fornitori parlano degli aumenti dei costi produzione - aggiunge Massimo Di Porzio, presidente di Fipe Campania - ma non corrispondono agli aumenti dei costi. Se ognuno dei tre attori della filiera (produttore, distributore e dettagliante) aumenta il costo del 10%, per il consumatore la situazione si fa ingestibile. La soluzione, come avvenuto con la benzina, è ridurre delle tasse. Se si azzerasse l’Iva, mediamente sugli alimenti al 4% (sul pesce a 10%), o se la si riducesse al 2% (come fatto sul gas, dove è stata portata al 5%), i costi diminuirebbero. Serve poi un controllo dello Stato. La benzina è aumentata del 5%, i prodotti mediamente del 15%-20%». «Sono cresciuti i costi energetici per chi ha contratti a tariffe variabili o per nuove attivazioni, ma tanti produttori godono ancora di tariffe bloccate - dice Stefano Meer, titolare di Friggi Pizza - Servono controlli capillari. Tutte le materie prime, verdure comprese, sono aumentate almeno del 20%». «Gli incrementi non riguardano solo prodotti importati dai territori toccati dal conflitto - conclude Claudio Turi, presidente dell’Unione Giovani Dottori Commercialisti di Napoli - Dai dati Istat, l’indice dei prezzi al consumo di aprile per Napoli ha raggiunto un incremento di oltre il 6% su base annua e arriva quasi al 9% per i prodotti alimentari. L’aumento dei costi dell’energia non può giustificare in toto un incremento così generalizzato».
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