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Crisi anzitutto di regole, se è vero che la Costituzione voleva farne i pilastri dell'ordinamento democratico, disciplinandone per legge lo statuto e la fisionomia giuridica. Sono rimasti invece associazioni non riconosciute, chiamate però, con le primarie, a prendere in pubblico, all'esterno, decisioni che prima venivano assunte in riunioni interne. Il deficit normativo è paurosamente evidente.La crisi dei partiti è inoltre crisi di stili e costumi politici. Di qualità di classe dirigente. Di comunità, un tempo raccolte intorno a ideologie o programmi condivisi e oggi quasi del tutto prive di quel mastice.
Il denominatore comune, che dovrebbe tenere uniti i partiti, si assottiglia sempre più, fin quasi a scomparire di fronte all'imporsi prepotente della dimensione personale. Che diviene, in positivo, fattore di costruzione della leadership, ma anche, in negativo, elemento di carrieristica autopromozione.Ancora una volta il contesto napoletano accentua ed esaspera questa involuzione, dal momento che qui tutto lo spazio pubblico è intriso di una endemica conflittualità.
Da conflittualità profonde sono attraversati i partiti, ma lo sono anche le istituzioni o le associazioni. Ne sono segnate le vicende della Camera di Commercio come quelle dell'Autorità portuale. Un'irredimibile divisività affligge lo stesso consesso comunale di Palazzo San Giacomo, polverizzato in gruppi e micropartitini personali. Si può dire che l'opera di ricostruzione di una fisiologia delle relazioni politiche e istituzionali non è ancora cominciata. Rissosità e personalismi, egoismi e interessi particolari prevalgono su qualunque visione del più generale interesse collettivo. Con le conseguenze che sappiamo, tra inconcludenza amministrativa e sterili velleità progettuali.Non meraviglia che questa maniera litigiosa di intendere la vita pubblica si riverberi anche in una competizione come le primarie, particolarmente fragili per mancanza di norme di legge.
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Il Mattino