Deve esserci stato un momento, nella storia di questa città, in cui il divenire della Storia si è fermato, raggrumandosi intorno a un più modesto processo di...
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In anni di epocali sconvolgimenti planetari, di rivoluzioni e di accelerazioni la cui portata non ci è ancora nemmeno del tutto chiara, la vita quotidiana a Napoli si trascina invece in una ginnastica della sopravvivenza, uno slalom che faticosamente può condurre al massimo alla fine della giornata. Schiacciati in un eterno presente, guardiamo al futuro timorosi e sfiduciati solo per capire come scampare alla catastrofe, perché temiamo che da lì arriverà la mazzata che ci inchioderà definitivamente a terra. Qualunque cittadino dotato di senso critico non fa in tempo a indignarsi, stupefatto dal senso di puerilità che caratterizza la stragrande maggioranza di questi scontri al calor bianco. Oppure costernato dall'adozione di linguaggi offensivi o intimidatori (sulla questione Caravaggio siamo arrivati al punto di dover sentir dire, in sostanza, che Riccardo Muti, una delle personalità più illustri della cultura di questa città, è poco più di un vecchio rimbambito).
Ormai, su qualsiasi questione che in qualsiasi altra realtà prende la forma del dibattito, su Napoli si allunga un unico, impetuoso grido: serrate le fila! Elmetto calato sulla testa, e via con gli spari dai fucili. Col risultato di aver fatto piazza pulita di qualsiasi possibilità di riflessione, ancorché critica o frontale. In questo senso, bisogna riconoscere che la manovra è perfettamente riuscita, e a fare le spese di questo baccano indistinto e permanente è la possibilità di pensare a Napoli come a una città normale. Creare confusione, mescolare le carte, è il modo migliore di silenziare questo bisogno assoluto di normalità, dirottando tutto sul binario unico dello scontro, dello scandalo, della maldicenza. Nulla più viene motivato per mezzo di analisi o diagnosi critiche, ma tutto viene sminuzzato dentro una fittissima rete di battute velenose a mezzo social network, articoli tranchant sui quotidiani, interviste traboccanti di sottotesti, di non-detti, di messaggi in codice. E non si può - anzi non si deve - voltare il viso dall'altra parte, al cospetto di questo spettacolo, perché lasciare spazio a queste modalità di conflitto non culturale ma politico, di gestione e mantenimento di quote di potere, significa lasciare che la città continui a camminare sopra una palude che rischia continuamente e sempre più di inghiottirla.
Bisognerebbe, forse, imparare dal protagonista di un brevissimo racconto di Kafka in cui, mentre il protagonista sta sellando il suo cavallo, il servo gli domanda dove stia andando, e il signore risponde: «Non lo so, purché sia via di qua, solo via di qua, senza sosta, così potrò raggiungere la mia meta». «Dunque conosce la sua meta?», domanda il servo. E il signore: «Sì, l'ho detto: via-di-qua. Ecco la mia meta». Mettersi alle spalle il luogo della partenza diventa esso stesso una meta. Sembra qualcosa di molto simile a una fuga, ma non è così. Si fugge per cercare una via di uscita. Si va via, invece, per cercare uno spazio di autonomia e di indipendenza. È questo lo spazio da ricercare, se vogliamo salvarci da questo pantano. È la strada più difficile, la meno appariscente, la più sincera. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino