E invece la Tarantina è Napoli. Va detto, all'idiota che ha pensato di imbrattare con una mano di vernice nera il viso dell'«ultimo femminiello» dipinto...
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Qualcuno potrebbe ribattere: e che saranno mai una mano di vernice scura, e poi la scritta «non è Napoli», per dire «non mi rappresenta, mi disturba, non mi ci riconosco»? Si potrebbe minimizzare, se non fosse che quel nero intolleranza ferisce per la sua palese valenza omofoba, perché riverbera la volontà di nascondere quello che il grande Pino chiamerebbe uno dei «mille culure» di Napoli.
Perché mette in parentesi, o peggio sovverte, una reputazione segnalata dai viaggiatori del Grand Tour come sostanza speciale, talento del luogo e dei suoi abitanti metabolizzato nella sua stessa antropologia. Cioè, a ben vedere, la parte migliore di Napoli, vera o presunta che sia, cioè la capacità di trasgressione e tolleranza, di far convivere o meglio coabitare al proprio interno identità, etnie, classi e ceti differenti. Come in un condominio della storia sconnesso, raffazzonato ma pieno di umanità.
Eccola, la parola, quasi impronunciabile nell'Italia contemporanea dell'odio. All'odiatore imbrattatore omofobo andrebbe ricordato come una declinazione particolare di umanità, forse unica nella storia, è incarnata da sempre a Napoli proprio nella tradizione dei femminielli, descritti come caratteristici della realtà napoletana fin dal secolo XVI da Giambattista Della Porta. I maschi in veste di femmina che conducono faccende femminili e passano il giorno a fare discorsi femminili e che, come descrisse Abele De Blasio a fine 800, a Napoli celebravano il rito dello «spusalizio masculino». Le figure familiari legate a riti della fertilità, a rappresentazioni simboliche come la «figliata», l'imitazione del parto sopravvissuto come «memoria del rito» impastata con pratiche magiche propiziatorie di salute per il neonato.
L'antropologo Marino Niola sottolinea volentieri che mai nel Regno di Napoli i femminielli sono stati oggetto di persecuzioni o ostracismi, come avveniva altrove. La cultura popolare, quella aristocratica, e poi la stessa ricerca antropologica hanno custodito e trasferito mille volte la figura simbolica del femminiello e i rituali esoterici connessi, suggerendoli all'arte e alla rappresentazione scenica: in teatro ne resta indimenticabile sopra tutto la geniale raffigurazione di Roberto De Simone ne «La Gatta Cenerentola». E a portare questa figura sulle scene si è dedicato da par suo, nello «Scannasurice», Enzo Moscato, poi Fortunato Calvino proprio con la Tarantina, mentre al cinema più di recente ha pensato un grande Peppe Barra, in «Napoli velata», a suggerire che si tratti di «una storia antica».
Serve altro per ricordare a noi stessi perché la storia antica dei femminielli e la stessa Tarantina siano una parte di Napoli che non può essere occultata da una mano di vernice nera? Forse una cosa, sì, ed è prendere in prestito la frase che venne detta in Circumvesuviana al passeggero infastidito dalla presenza del ragazzo pakistano, in risposta al suo «l'Italia agli italiani» dalla signora Maria Rosaria ed estenderla all'ignoto imbrattatore: «Tu non sei razzista (o omofobo), sei str***». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino