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Il maledetto Covid ha impedito ai tanti napoletani che lo avrebbero desiderato di stringersi in un unico grande abbraccio. Di stringersi fisicamente, e non solo virtualmente, attorno al luogo simbolo di Maradona: lo stadio San Paolo. Anche per questo, per una sorta di risarcimento postumo per il dolore rimasto in larga parte inespresso, è giusto che il San Paolo porti il suo nome, come già annunciato dal presidente della Commissione Toponomastica del Comune, senza eccessivi indugi e speriamo, per una volta, senza discussioni più o meno sofisticate e sterili. Lo stadio-feticcio deve portare il nome del campione che ha regalato il suo corpo alla città, diventando una sola cosa con essa. Non solo il più grande di tutti, capace di entrare nel cuore perfino nel cuore di chi, lontano da Napoli, si sentiva costretto a fischiarlo, per invidia o per campanile. Ma un campione che si è nutrito della città così come la città si è nutrita di lui. Carne e sangue.
È giusto intestare il San Paolo a Diego perché quello che Diego ha rappresentato per Napoli va oltre i due scudetti, una coppa Uefa e le giocate da sogno messe in fila a comporre la trama di una meravigliosa favola. Lo stadio deve chiamarsi Maradona perché tra Maradona e Napoli vi è stato un rapporto di simbiosi, ma sarebbe meglio dire di reciproco possesso, come raramente è avvenuto nella storia ultramillenaria della città. Ciascuno ha messo a disposizione dell'altro i propri eccessi, le proprie debolezze, le proprie iperboli. Diego ha aiutato Napoli a rialzare la testa dopo le macerie del terremoto, negli anni storti che la città voleva lasciarsi alle spalle; l'ha aiutata ad acquisire una mentalità vincente. E Napoli, adottandolo come una strana divinità, una sorta di Dio Scugnizzo da celebrare e da divorare, gli ha riversato addosso tutta sé stessa: un affetto soffocante e teatrale, che ha esaltato il campione e frastornato l'uomo, alimentando allo stesso tempo il suo ego e le sue fragilità.
Maradona e Napoli hanno scritto insieme uno straordinario romanzo di specchi: per questo l'impianto di Fuorigrotta dev'essere intitolato a Diego, nonostante le ombre che, soprattutto nei mesi finali della sua avventura napoletana, lo hanno avvolto in una specie di nube tossica, trasfigurandone il volto in una maschera spesso tragica. Questo processo di immedesimazione tra il campione bulimico e la città-corpo, che ha sempre bisogno di capipopolo da idolatrare, lo ha raccontato bene il regista Asif Kapadia nel film «Maradona. Ribelle eroe. Sfrontato Dio», senza fare sconti né all'asso argentino né alla città che è stata la sua casa dal 1984 al 1991. Donandosi interamente a Napoli, che si donava a lui, Diego è diventato il primo tra i napoletani, una specie di vendicatore arrivato da chissà quale misterioso pianeta a riparare torti antichi.
C'era tanta voglia di abbracci, ieri, in città.
Anche il San Paolo è - e sarà sempre - un luogo della memoria. Davanti al quale, quando quest'incubo sarà finito, potremo riversarci tutti per stringerci nel grande abbraccio che ieri ci è stato negato, urlando il nome di Maradona e facendolo risuonare - come un nome di casa, di famiglia - nello stadio che porterà il suo nome.
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