San Gennaro, patto per rubare il tesoro tra camorra, mafia e banda della Magliana

San Gennaro, patto per rubare il tesoro tra camorra, mafia e banda della Magliana
«Per avere una grazia da San Gennaro bisogna parlargli da uomo a uomo. Bisogna vedere San Gennaro cosa ne pensa, perché se quello si offende, si indispettisce e non...

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«Per avere una grazia da San Gennaro bisogna parlargli da uomo a uomo. Bisogna vedere San Gennaro cosa ne pensa, perché se quello si offende, si indispettisce e non fa più miracoli». C'è stato un tempo in cui il boss di Forcella, Luigi Giuliano, ha dovuto davvero vestire i panni di don Vincenzo o fenomeno, il celebre personaggio impersonato da Totò nella pellicola di Dino Risi del 1966, «Operazione San Gennaro». Circa dieci anni dopo dalle imprese di Nino Manfredi e della sua banda, l'idea di trafugare il tesoro di San Gennaro venne a Lovigino e a o nasone Peppe Misso. Il piano per il colpo del secolo era stato studiato nei minimi dettagli, solo un caso, una coincidenza o, se si vuole, un miracolo, riuscì a salvare i preziosi del patrono di Napoli. A raccontare la succosissima storia è lo stesso Luigi Giuliano, nel godibilissimo primo volume, da ieri nelle librerie e su Amazon Market, scritto con il giornalista della Verità e di Panorama, Simone Di Meo. In «Nuova Famiglia, la vera storia. Combattere o morire», edito da Stylo24 Edizioni, l'ex boss di Forcella narra del mancato colpo a San Gennaro. 

«Un giorno - racconta, nelle pagine scritte con Di Meo, il boss dagli occhi di ghiaccio - Misso ci convocò e ci disse di voler trafugare il tesoro di San Gennaro, nessuno di noi pensò che stesse scherzando. Secondo Misso, e anche secondo me, perché poi partecipai pure io ai sopralluoghi e all'analisi del colpo, l'impresa era tutt'altro che difficile. E temo che le condizioni non siano cambiate: il tesoro di San Gennaro è ancora in pericolo». Proprio come nel film di Dino Risi, la banda di Giuliano e Misso aveva intenzione di passare dalle fogne per realizzare il colpo del secolo: il punto d'accesso sarebbe stato quello di piazza Cardinale Sisto Riario Sforza, proprio di fronte al Pio Monte della Misericordia su via dei Tribunali. «Studiando le carte - racconta Giuliano - ci accorgemmo che, dalle cantine di quel palazzetto, scendendo giù nei cunicoli fognari, si poteva arrivare praticamente in linea retta alla Cappella. Il rischio era praticamente inesistente». Il colpo si sarebbe fatto insieme alla Banda della Magliana che sin da subito si incaricò di trovare i ricettatori per quel tesoro sterminato dal valore inestimabile. Nel mirino di Peppe Misso non c'era solo il tesoro, ma anche i quadri della pinacoteca, custoditi in un appartamento della Curia: settanta dipinti della celebre scuola di Posillipo del valore di miliardi di lire.

Era tutto pronto, ma racconta il re di Forcella che la banda era stata assoldata proprio in quei giorni per trafugare dei documenti di vitale importanza dalla Banca Antoniana di Padova. Era il 3 ottobre del 1976, appena un paio di settimane dopo l'avvenuto miracolo, con tanto di scioglimento del sangue. Misso e Giuliano erano solo dei ladri, non ancora i boss che oggi tutti conosciamo. «A reclutare la nostra banda - spiega Giuliano - era stato Pippo Calò (personaggio cruciale di Cosa nostra) su richiesta di Roberto Calvi, il banchiere poi ritrovato ucciso sotto il ponte dei Frati neri a Londra nel 1982. Calvi aveva necessità di quelle carte riguardanti alcuni movimenti finanziari all'estero del Banco Ambrosiano, e ce lo confermò di persona nel corso di una cena che tenemmo in un ristorante a Santa Lucia a cui parteciparono rappresentanti siciliani e napoletani di Cosa nostra. Sapeva perfettamente chi eravamo e, per agevolare il nostro lavoro, Calvi ci offrì anche l'aiuto di un tecnico tedesco che, al momento del nostro ingresso nella banca, avrebbe disinnescato l'allarme». Il colpo fu però fallito perché la banda di Giuliano e Misso sbagliò i calcoli delle bombole d'ossigeno che servivano per attivare la fiamma ossidrica e sventrare le cassette di sicurezza. Ne portarono otto, ne servivano il doppio. Tornarono a Napoli con la coda tra le gambe. «Ho sempre pensato - racconta Giuliano di Calvi - che la nostra superficialità, in quel furto, gli possa essere costata la vita. Non credo al suicidio di un uomo potente e temuto com'era Calvi all'epoca». Tutti i componenti della banda, compreso Peppe Misso, furono arrestati e poi liberati per insufficienza di prove. Solo Giuliano riuscì a sottrarsi alle manette perché - ammette - era riuscito a corrompere un medico del Cardarelli, facendo risultare nei registri che la sera del colpo alla banca si trovasse in ospedale per farsi visitare. Il colpo al tesoro di San Gennaro fu rinviato solo per quel fallito raid nel Banco Antoniano di Padova. Coincidenze o, forse, miracolo. 

Una volta tutti liberi, Misso, anche per recuperare l'onta del colpo fallito alla banca di Padova, convocò una riunione per riprendere il progetto di rubare al Santo. Il tesoro di San Gennaro era nuovamente in pericolo, ma il boss di Forcella ebbe una folgorazione, un ripensamento. «Un amico forse un po' troppo superstizioso - racconta Giuliano - mi fece accapponare la pelle con una battuta. Disse che era stato San Gennaro a far saltare il raid al Banco Antoniano per punirci. Quando fu il mio turno, senza troppi giri di parole, espressi il rifiuto a realizzare il colpo». Un sussulto di coscienza: «Saremmo diventati i ladri più famosi della storia, ma avremmo vissuto nella ricchezza in una città che ci avrebbe odiato. Perché il tesoro di San Gennaro non appartiene alla Curia né al Vaticano. È l'unico tesoro al mondo che appartiene a un popolo, il popolo napoletano». Così anche il secondo tentativo saltò. Giuliano riuscì a convincere sia gli altri componenti napoletani che quelli della Banda della Magliana, solo Peppe Misso era irremovibile. «Alla fine di quell'estenuante incontro dove Peppe ed io avevamo giocato a ping pong col tesoro di San Gennaro - ricorda Giuliano - fu presa una decisione di compromesso: il colpo non era annullato ma congelato sine die. Era l'unico modo per salvare forma e sostanza». Poi, per scoraggiare ulteriormente il collega, Giuliano fece giungere al vescovo il consiglio di proteggere meglio il tesoro del Patrono e i quadri. Anni dopo, si era ormai alla metà degli anni 80, il sogno di Misso di rubare il tesoro non era però svanito. «Quand'ero ormai diventato il boss riconosciuto della Fratellanza napoletana, anni dopo, mi arrivò infatti all'orecchio una strana voce che voleva il mio amico Peppe Misso di nuovo impegnato ad architettare il colpo a mia insaputa. Chi mi aveva soffiato l'informazione era ben al corrente della mia volontà e, per questo, ricordando quella lontana riunione in cui mi ero battuto perché la rapina fosse rimandata, aveva deciso di interpellarmi. Convocai Misso seduta stante e, stavolta, senza chiedere rinvii o fare appello ai sentimenti e alla devozione per San Gennaro, gli ordinai di lasciar perdere. Ero il capo, allora. Gli dissi che il tesoro era sotto la mia protezione, e nessuno nemmeno lui poteva tentare di disobbedirmi. Peppe capì e si arrese. Definitivamente». Come disse Totò a Nino Manfredi nel celebre film: «Dudù, noi a Napoli campiamo solo di miracoli». 

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Il Mattino