Salvare i patrimoni, assicurare una gestione morbida dei propri beni ai propri figli e mandare segnali di distensione a quelli dell’altra parte: che sono i Di Lauro, ma...
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Non si pentono, ma si dissociano: chiedono scusa, si battono il petto, ma non accusano altri soggetti né forniscono spunti per nuove indagini. Chiedono di fare una cosa non consentita dal codice, - la dissociazione - provando ad andare all’incasso di qui a qualche anno: dribblare l’ergastolo, abbassare la morsa delle indagini, controllare patrimoni mafiosi frutto del riciclaggio di massicce quantità di denaro sporco. Così Gennaro Marino e Cesare Pagano, boss di primo piano della camorra napoletana, dal 2004 a capo dell’ala scissionista della camorra di Secondigliano. Ma non sono i soli.
Anche ieri mattina, un altro detenuto al carcere duro ha seguito la scelta dei capi: si chiama Carmine Pagano, è il nipote di Cesare, segue la scia. Ieri, il boss Pagano ha rincarato la dose: «Sono responsabile anche dei delitti di Fulvio Montanino e Claudio Salerno, con la camorra io non c’entro più niente». Nessun commento in aula, il pubblico tace, consapevole di assistere a un copione preordinato. C’è spazio ancora per altri colpi di scena, quando dinanzi ai giudici della quarta assise (presidente Rosa Romano) prendono la parola altri imputati.
Da Milano, c’è un intermezzo del presunto killer Rito Calzone, che non ha nessuna voglia di offrire una confessione ai magistrati. Anzi. Tocca poi al reo confesso Arcangelo Abete, altro scissionista della prima ora, aggiungere poche parole sulla propria conversione: «Al di là di tutti quelli che hanno confessato qualcosa, gli altri imputati sono innocenti», chiarisce per accontentare le famiglie presenti nel pubblico. Insomma, una slavina che sembra rafforzare le indagini del pool anticamorra dell’aggiunto Filippo Beatrice e dei pm Stefania Castaldi, Maurizio De Marco e Vincenza Marra. Soddisfatti e cauti, gli inquirenti. Ma cosa c’è dietro confessioni e chiarimenti?
Indagine sullo scenario criminale a dodici anni dai primi venti di guerra che insaguinarono l’area metropolitana, con decine di morti ammazzati in pochi mesi. Ricordate cosa accadde nei primi anni Novanta? Moccia si autoaccusò degli omicidi, senza accusare altri imputati, fino a scontare una condanna che si è conclusa solo di recente. Oltre venti anni di cella, niente ergastolo, un fine pena che è sopraggiunto un anno fa. È una strada percorribile?
Spiega al Mattino l’avvocato Saverio Senese, difensore di Moccia (in questi anni è stato affiancato anche dal collega Libero Mancuso): «Le sentenze sul caso Moccia sono dei precedenti ma non sono vincolanti, in questa materia ogni giudice può decidere secondo il proprio convincimento».
Il Mattino