La conoscenza dell'italiano per aprire un negozio, insegne rigorosamente nella lingua di Dante e prodotti alimentari provenienti esclusivamente dalla Campania. Che Palma...
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Ora l'attuale primo cittadino Nello Donnarumma prova a regolamentare l'apertura e il funzionamento dei negozi nel centro storico. Obiettivo non dichiarato: liberare zone come via Roma, via San Felice e piazza De Martino da call center e negozi etnici gestiti da migranti. Obiettivo dichiarato: riqualificare l'area, cercando di abbellirla con esercizi commerciali di qualità. Ed è il sindaco stesso a specificarlo: «Abbiamo previsto degli incentivi a chi apre nuove attività nel centro, fino a 10mila euro. In cinque hanno già aperto: logico che ci preoccupiamo di dare questi soldi a chi fa investimenti di un certo livello». E così, passano in giunta nuove linee di indirizzo sulle attività commerciali del territorio. La delibera prevede subito un esplicito divieto ad aprire negozi da parte di «delinquenti abituali» e di chi ha ricevuto condanne gravi passate in giudicato. Poi passa all'elenco delle tipologie di negozi che possono essere avviate: erboristerie, librerie, oreficerie, sartorie (i costumi dello storico Carnevale a Palma Campania sono bellissimi). Scorrendo ancora il provvedimento, arrivano i «criteri e requisiti per l'insediamento e l'esercizio delle attività». E qui c'è la prima sorpresa. Tra i requisiti obbligatori ci sono «insegne, scritte pubblicitarie e avvisi al pubblico interni ed esterni alla sede dell'attività, ivi comprese le vetrine, espressi in lingua italiana, fatta eccezione per le parole ormai divenute parte del linguaggio italiano». E basta fare un giro per la città per accorgersi che questa regola, se dovesse essere applicata, stravolgerebbe tutto il centro storico, oggi zeppo di insegne in lingua bengali, quella parlata in Bangladesh. Ma non è finita. Lo stesso elenco prevede, sempre tra i requisiti obbligatori per un commerciante, «la conoscenza adeguata della lingua italiana», da provare attraverso un titolo di studio di scuola media superiore legalmente riconosciuto e la certificazione di conoscenza della lingua italiana, livello A2. Ma il razzismo, spiega il sindaco, non c'entra nulla: «Non c'è alcuna discriminazione, queste regole sono un deterrente, chi le rispetta non avrà alcun problema. Che c'è di male a chiedere che chi gestisce un negozio conosca la lingua italiana e metta insegne in italiano? Peraltro conosco tanti stranieri che sono in possesso della certificazione e l'italiano continuano a non saperlo».
IL MODELLO PRATO
La delibera («Per scriverla ci siamo ispirati al Comune di Prato, dove hanno da anni un problema di integrazione coi cinesi», dice Donnarumma) presenta tanti punti destinati a far discutere. Per esempio, relativamente al settore alimentare, c'è scritto che nell'area del centro storico è consentito esclusivamente l'insediamento di attività di vendita di prodotti locali la cui provenienza è riconducibile al territorio regionale. Insomma, si va pure oltre il sovranismo. Siamo al regionalismo vero e proprio. E Donnarumma chiarisce: «Diamo soldi a chi apre nuove attività, siamo tra i pochi a farlo, è chiaro che cerchiamo di premiare chi valorizza il territorio». Informato dell'iniziativa, Giovanni De Pietro del Sindacato Autonomo Stranieri (che tutela i bengalesi da anni) non esita a dire: «Manderemo tutto agli avvocati per i ricorsi. Siamo di fronte a una illegittimità palese». Ma Antonio Mattiello, rappresentante locale di Confesercenti, spiega: «Ci aspettiamo che sia solo il primo passo. Qui c'è un problema di rispetto delle regole e di tasse da pagare. Noi vogliamo che le leggi siano rispettate da tutti, non sono tanto questi regolamenti ad interessarci quanto i controlli verso chi evade o non sta a posto». Tra i residenti, invece, c'è chi fa ironia: «La lingua italiana? E che siamo l'Accademia della Crusca? Meglio insistere sulla sicurezza». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino