Vent'anni non sono bastati per stabilire cosa era accaduto al Vomero, quando lasciava i figli tra le braccia del padre, suo ex marito. Venti anni non sono bastati per chiudere...
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Una donna coraggio, quattro figli ritenuti vittime di abusi, il marito (e padre dei bimbi) sotto accusa. Faldoni zeppi di visite mediche, di sedute al cospetto di psicologi infantili, di analisi incrociate sull'attendibilità delle testimonianze rese e confermate, ritenute nel corso dei vari gradi di giudizio «granitiche» o «frammentarie», facendo di volta in volta pendere il piatto della giustizia da una parte e dall'altra. Due assoluzioni e due condanne, tre pronunciamenti della Cassazione. Sulle prime - stando almeno ad alcuni titoli di giornale - l'ipotesi investigativa è questa: l'uomo avrebbe condotto i figli in altre abitazioni, dove si sarebbero consumate violenze sessuali di gruppo. Si fece anche riferimento a simbologie esoteriche, a riferimenti satanici, che però non entrarono nell'inchiesta penale condotta a carico di decine di persone. Furono ben 17 le archiviazioni, mentre rimase a giudizio la sola posizione del genitore. Un mostro o una vittima? Proviamo a vedere cosa è accaduto nelle aule di giustizia: l'uomo viene condannato in primo grado a sedici anni di reclusione, mentre in appello viene assolto con la formula più ampia; si va una prima volta in Cassazione, l'imputato viene assolto per la seconda volta. Ma non è finita. Altro ricorso per Cassazione, che rimanda gli atti in appello e in questo caso viene ripristinata la condanna a sedici anni di reclusione a carico del padre dei tre bambini. Terzo ricorso per Cassazione da parte dell'imputato, che rispediscono gli atti a Napoli (senza smentire la portata delle denunce), per definire in modo più corretto le motivazioni della condanna, di fronte all'unico reato rimasto in piedi, quello delle lesioni che sarebbero state provocate ai danni dei tre minori. E sono sempre i giudici della Cassazione a indicare la prescrizione del reato di violenza sessuale, essendo trascorsi 17 anni e mezzo dalla denuncia e dall'allontanamento dal nucleo domestico da parte dell'indagato (anche se il calcolo definitivo spetta ai giudici napoletani). Ieri, nuovo round in appello, processo rinviato a gennaio. Assistita dal penalista Alfonso Maria Avitabile, Rosita Maiello ha ottenuto che - al netto del rinvio di ieri mattina - si entri subito nel vivo del processo senza ulteriori stop. Costituita parte civile, spiega al Mattino: «Temo nuovi rinvii, temo che anche questo filone processuale finisca nel nulla. Ho il diritto a conoscere la verità, dopo una battaglia legale costosa e stressante: lo dico anche per i miei figli, che vivono lontano da Napoli, portandosi addosso cicatrici indelebili». Venti anni, l'incubo della prescrizione, il diritto alla giustizia. È il penalista napoletano Ciro De Simone, difensore dell'imputato, a chiarire le proprie ragioni: «Anche noi attendiamo la definizione nel merito della vicenda. Il mio assistito rivendica la propria innocenza: è stato giudicato da 36 magistrati, 18 si sono espressi a favore, 18 contro, ci sono perizie favorevoli all'imputato e noi tutti abbiamo il dovere di attenerci agli atti processuali. Siamo i primi a chiedere un punto definitivo in questa storia, a più di venti anni dall'inchiesta che scosse la buona borghesia collinare». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino