Nella lingua wolof di Senegal e Gambia, teranga vuol dire generosità, ospitalità, rispetto. Ma Teranga è anche il nome del locale di piazza Bellini diventato...
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La Seymour, giornalista inglese che vive a Napoli da più di cinque anni, si considera partenopea d’adozione. «Arrivai in città», racconta, «nel pieno della crisi dei rifugiati, con l’idea di dare una mano come volontaria. Iniziai a fare la traduttrice in un centro d’accoglienza, ma ben presto decisi di uscire da questo sistema tutto burocratico, perché sconvolta da come i giovani migranti venivano sfruttati per guadagni privati. Pian piano ho iniziato a coltivare amicizie con molti di loro, a partire da Fata e Yankuba, a ospitarli a casa in modo da fargli vivere una quotidianità lontana dalle pressioni e dall’atmosfera negativa dei centri di accoglienza straordinaria. Il documentario è nato così, in modo molto semplice e spontaneo».
Nei suoi 35 minuti, «Teranga – Life in the waiting room» racconta con intensa partecipazione e lucida umanità le storie di Fata e Yankuba, il primo aspirante dj e il secondo studente universitario con l’aspirazione di diventare biochimico. Giunti a Napoli dopo l’infernale odissea nelle carceri libiche e attraverso il Mediterraneo, come tanti altri uomini e donne provenienti dall’Africa, entrambi devono fronteggiare una burocrazia respingente, con l’unico sfogo delle serate danzanti al Teranga (la musica è centrale nel film, a partire dalla soundtrack dei rapper Lil Bo$$ e Doz3r Starlet, anch’essi immigrati richiedenti asilo), dove – dicono nel documentario – «noi balliamo per dimenticare, noi cantiamo per dimenticare», facendosi quasi scudo di queste parole. «Grazie a quelle amicizie, ho iniziato a frequentare la comunità di migranti in piazza Garibaldi e», spiega la giornalista-regista, «sono stata colpita dalla loro intraprendenza e capacità di recupero, oltre che dalla gentilezza nei miei confronti. Così, ho coinvolto Daisy e Lou e abbiamo concretizzato il nostro desiderio comune di raccontare le vite sospese e invisibili di queste persone dinamiche e stimolanti, troppo spesso negate e ostacolate dai media e dai pregiudizi sociali. Alla fine, spero che il nostro lavoro possa servire a far guardare questi ragazzi con occhi diversi e più umani». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino