Viaggio in Togo ​per salvare la vita | Giorno 2, la lotta per la sopravvivenza

Viaggio in Togo per salvare la vita | Giorno 2, la lotta per la sopravvivenza
Portare avanti una gravidanza. Possibilmente sana. Non morire di parto. Nascere. Nascere sani. Non morire durante il primo anno di vita. Sopravvivere. Lavorando per qualche...

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Portare avanti una gravidanza. Possibilmente sana. Non morire di parto. Nascere. Nascere sani. Non morire durante il primo anno di vita. Sopravvivere. Lavorando per qualche spiccioli. Sposarsi e riprodursi. Germana è un’ematologa di Roma in pensione. “Ma qui l’ematologia serve a poco, le cure sono troppo lunghe”. È lei che passeggiando per le strade completamente al buio di Afagnan dopo tre birre divise in sei pagate in tutto 3€, a riassumere cosa vuol dire la vita in Togo, in Africa e quali sono le priorità. “Sopravvivere”, ribadisce. Eccolo qui il “senso della vita” al di sotto del Sahara: sopravvivere. Nessun progetto, nessuna aspirazione, nessuna ambizione e nessuna delusione per non averla raggiunta. Non è così facile da comprendere se non lo si vede così da vicino. E per quanto paradossale, difficile e forse doloroso, c’è un senso, c’è sempre. E ci mette un istante il pensiero a ricollocare il senso della vita “normale” di chi ha tutto.


Esattamente tutto, senza rendersene conto: il senso diventa non sopravvivere e basta. Al di qua del Mondo, sopravvivere e basta, stona con chi non ha idea che si possa fare altro nella vita, o meglio, che esista una vita. Le strade di Afagnan sono buie, di un buio pesto “ma sicure”, precisa Chira Faso, studentessa di chirurgia 22enne di Modena. È in Togo da 10 giorni e gira per l’ospedale sicura, la conoscono tutti. È con lei, con Germana e Felicien e i due chirurghi, Ida e Fausto che si esce dall’ospedale dopo il tramonto, che qui è alle 17.30, alla volta di una specie di bar dove la birra, che non sa di nulla, costa meno di un euro a bottiglia, quella grande. Non è un bar: è una catapecchia, buia, dietro il banco un ragazzo sui 30, a servire ai tavoli una ragazzina molto silenziosa con i capelli cortissimi. I capelli cortissimi non aiutano a capire se davanti a te hai un maschio o una femmina. Specie se sono molto giovani. Ma servono ad evitare i pidocchi. Prendere una birra su questa strada è surreale ma convince bene su cosa sia l’Africa. La stanchezza dopo una cena a base di tubero, ignam, si chiama, e pesce secco, è tantissima. Il giorno qui inizia presto e inizia indossando subito la tuta operatoria. Suor Simona spiega perché: “L’ambulatorio è già pieno, io inizio il giro visite alle 7, alle 7.30 le operazioni. Di solito di sabato e domenica non operiamo ma ora che ci siete voi...” In effetti la sala d’attesa è strapiena, Suor Simona aspettava i chirurghi per esaminare i casi più gravi e decidere quali operare e quali no. Suor Simona è anche la responsabile del centro accoglienza appena fuori l’ospedale, dove ci sono 34 bimbi orfani o abbandonati, di ogni età. Sono soli in una parte di Mondo parecchio complicata, eppure adottarli è praticamente impossibile. “Se volete, domani posso portarvi”, dice Suor Simona.
 
Sì, assolutamente. Intanto l’ambulatorio è un via vai di patologie, più o meno gravi. Qualcuna va operata subito, come una ragazzina di 15 anni, silenziosa ed educata che ha una necrosi con osso esposto. “Va operata al più presto”, avverte Fausto. Suor Simona lo dice subito: “Lo sanno... ma a volte non si operano perché sono senza soldi”. Le visite vanno fatte veloci: in sala operatoria Ida aspetta per operare una bimba di 8 anni nata con il palato aperto. Prima di congedare, Suor Simona programma gli interventi dei prossimi giorni e avverte: “La bimba di 1 mese che avete visto ieri forse ha l’HIV... Ce l’hanno sua madre e suo padre, faremo le analisi”. Quella bimba pesa appena 3kg, ha il labbro leporino ma non è detto che abbia anche l’AIDS: “Se la madre ha partorito con il cesareo forse è sana”, spiga Fausto. La regola della sopravvivenza: nascere, nascere sani, possibilmente, sopravvivere. Non si potrà partecipare a quell’intervento: troppo pericoloso. “Lavati per la ragazzina con la palatoschisi”. Non essere un chirurgo e assistere come se lo si fosse ripaga di ogni cosa: i “grazie” di chi ammira da lontano sono tutti compensati da una cosa del genere, dall’essere in una equipe, pur avendo scelto di essere una giornalista e si ringraziano i medici veri. L’operazione riesce. Cambia la vita ad una bambina. Ma operare non è semplice: l’attenzione non è una dote da queste parti e si fa cadere un bisturi, la luce funziona a metà ed è fioca, i kit chirurgici ce li si porta da casa.

Dall’Italia. L’intervento dura due ore. “Sarebbe durato di meno in Italia”. Girando i reparti si tocca con mano ciò che vuol dire essere in Africa. Ma si incontrano anche occhi meravigliosi, vite appena sbocciate che lasciano senza fiato per la bellezza. Le fotografie non ne rendono la bellezza, ma vanno fatte e in un francese sconosciuto si impara a chiedere il permesso per scattare: “Falle e basta”, dice Suor Simona, ma immortalare quegli occhi, va fatto con rispetto. Qualcuno chiede un cadeau, per la foto al bambino. “Quando avete finito, siamo invitati a pranzo alla culla di specializzazione qui accanto: si sono diplomati gli infermieri”, dice Chiara. Non è raro studiare medicina in Togo: è raro, molto raro, c’è dopo gli studi si resti qui, in Togo. La scuola di specializzazione è attaccata alla struttura ospitante e che è una giornata speciale si capisce dall’eleganza degli ospiti, adulti e bambini. Qui fare gli abiti è una vera arte ma è costoso e si possono ricostruire i vincoli familiari a seconda degli abiti: quelli che hanno la stessa fantasia delle stoffe cucite, sono parenti. Una regola surreale ma veritiera. All’ingresso della scuola c’è una cartina dell’Africa: è la prima incontrata, non è facile vederne in giro.


Tutto il primo piano è pieno di suore e frati in agitazione, tutti reduci all premiazione che si è tenuta nella sala polivalente dell’Ospedale. Una cosa, lunga. Parecchio lunga, raccontano. Saranno 100 i diplomati. Sono gli stessi che ieri sera hanno festeggiato fino a tarda ora, con musica e balli. Sono loro. La sala è molto grande e il cibo abbonda. I parenti sono tutti in ghingheri e gli sorride il cuore. La loro gioia si avverte. Si avverte quella di chi non ha quella scelta a cui nel lato giusto del Mondo si è abituati e poter dare un senso diverso alla vita, che non sia solo quello di sopravvivere e basta, riempie letteralmente di gioia. Di quella vera, a volte sconosciuta in certi posti giusti della terra.“Nel pomeriggio andiamo a vedere la partita di calcio e poi il mercato, così stacchiamo un po’”, dicono Chiara e Germana. Così, tanto per respirare un po’ di normalità lontani dalle sale operatorie dove vita e morte si confondono, dove di normale pare non ci sia nulla. Mentre di straordinario c’è la possibilità di salvare una vita. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino