Capri scoppia più di prima, più che mai, perché non c’è mai stato un così elevato numero di corse di aliscafi e traghetti, e il business...
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Al porto di Marina Grande, se non è l’inferno, poco ci manca: code pazzesche per la funicolare, per gli autobus, e perfino per i taxi. Tutto diventa difficile: ci si può mettere anche una mezz’ora, in autobus, per coprire il tragitto dal porto ai Due Golfi. Chi non è mai stato a Capri, è talmente preso da ciò che scorre sotto i suoi occhi da non farci caso (forse). Ma chi con l’isola ha una consuetudine più o meno antica non può fare a meno di pensare che questa no, non è più Capri. Sono dieci chilometri quadrati e mezzo di sfruttamento intensivo, violento e irragionevole.
Capri oggi è un lembo d’Italia totalmente governato dal mercato, e si vede. Le ragioni del profitto sono superiori a tutte le altre. Si spara la musica ad alto volume sui tesori naturalistici delle baie più selvagge, il cemento continua a colare dalla Grotta Azzurra alla Migliara, e l’isola è gestita di fatto dalle compagnie di navigazione, al ritmo di diecimila, quindicimila persone al giorno. I capresi non decidono più nulla: hanno ceduto i loro alberghi più rappresentativi, si sono rintanati in una rendita di posizione che è strutturalmente di retroguardia. Il business, comunque, è enorme, ed è responsabile di una delle più grandi anomalie della plurisecolare storia turistica di Capri. L’isola la cui fama si è costruita sul mito di una assoluta «esclusività», l’isola degli happy few ricchi e famosi o soltanto autoreclusi, è oggi soprattutto l’isola dei grandi numeri, ossia del turismo mordi-e-fuggi, il più “basso” e devastante che si possa immaginare. È quello il “core business”, benché faccia a pugni con l’altro turismo, quello della cosiddetta “alta gamma”, non si sa bene quanto realmente alto se non in termini di possibilità di esborso di denaro, e comunque ormai confinato nella riserva indiana degli hotel di lusso, tra la spa e la discoteca kitsch, perché fuori di lì è davvero difficile mettere il naso.
Ed ecco tornare in scena la commedia degli equivoci: due comuni, due sindaci che sono pure parenti, due posizioni diametralmente opposte. Capri che invoca il numero chiuso. Anacapri (la cui economia è dipendente soprattutto dalla massa), che lo avversa. Capri che vorrebbe limitare il traffico, Anacapri che manco a pensarci. Sullo sfondo, i Grandi Progetti per la Trasformazione dell’Isola, e in particolare la mitologica funicolare per Anacapri che, bucando la montagna, dovrebbe finalmente fornire al comune alto le magnifiche sorti e progressive di un definitivo affrancamento turistico e (lo si potrebbe sperare ma non è affatto detto che così sia, anzi), finalmente un forte sgravio dell’eccesso di motorizzazione che attualmente costituisce il suo problema principale, benché largamente sottovalutato.
Ecco: il punto è esattamente questo, semplicemente questo, non altro che questo. Quarant’anni fa qualcosa è cambiato nella testa degli isolani, che fino ad allora erano stati le persone più belle e gentili del mondo. Sull’isola di Capri, negli ultimi quarant’anni, si è costruito più di quanto non si fosse costruito nei duemila anni precedenti. Il riccio di mare è diventato una rarità, una bottiglia d’acqua costa due euro e mezzo e il mare stesso, in fondo, è diventato un lusso faticoso e sostanzialmente inutile per chi viene a Capri, e Capri sembra più un’idea che una realtà, più un selfie che uno scenario naturale. Da quarant’anni a Capri si continua ad aggiungere, mentre sarebbe ormai davvero arrivato il momento di togliere. Qui non si parla né di numero chiuso, né di «decrescita felice». Si parla, molto prosaicamente, dei conti che gli isolani dovrebbero farsi sul proprio futuro, decidendo: a) se continuare a farsi governare da altri, i cui interessi collidono coi loro; b) se continuare a spremere Capri come un limone, fino a che non ne rimanga che la scorza; c) se invece tenerselo, questo limone, trattandolo in maniera un po’ più dolce e ragionevole, perché continui a dare succo ed energia vitale anche per le prossime generazioni. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino