Coronavirus in Campania, viaggio tra gli ultimi contagiati del Cotugno: «Ma non si canta vittoria»

Coronavirus in Campania, viaggio tra gli ultimi contagiati del Cotugno: «Ma non si canta vittoria»
Eccola, la prima linea del fronte. Con le straordinarie immagini del fotoreporter Alessandro Garofalo, siamo andati a puntare gli occhi sulla trincea. Ospedale Cotugno,...

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Eccola, la prima linea del fronte. Con le straordinarie immagini del fotoreporter Alessandro Garofalo, siamo andati a puntare gli occhi sulla trincea. Ospedale Cotugno, l’eccellenza mondiale. Terapia intensiva e sub-intensiva: qui il virus ha fatto davvero male. Qui ancora resiste nei volti provati di alcuni pazienti, per lo più anziani; qui ancora tenta di fare il salto di corpo in corpo, approfittando di una distrazione per contagiare ancora, moltiplicarsi, annidarsi in una gola innocente, o su un tessuto, e magari lasciare le stanze, prendere il cortile, evadere e conquistare nuovi spazi in città. Ma da qui non esce. Corsie protette, vestizioni rigorose, sanificazioni a ogni passo. I box della terapia intensiva sono isolati, i posti sono separati. Perfino gli impianti di ventilazione osservano un protocollo rigoroso. Le misure di sicurezza sono proprio come in un film americano. Il virus è stato fatto a pezzi, colpo su colpo, con il rispetto che si deve ai nemici insidiosi, e con l’ostinazione con cui si vincono le grandi battaglie. Ma vittoria è una parola da sussurrare appena, in questi corridoi: se la pronunci ti guardano male. Guai a festeggiare. C’è ancora da combattere, ti dicono in coro i soldati. Lorenzo, Elena, Enza: infermieri, fisioterapisti, medici. Con il capo del reparto, Giuseppe Fiorentino. Ci parli con gli occhi da sotto gli occhialoni, dentro il cappuccio bianco, intabarrati nelle tute spaziali, disinfettati con una pompa a spruzzo dai calzari ai guanti, attraversando porte e corridoi, aree di decantazione con docce invisibili di sanificazione, per non lasciare il minimo varco a questo sputo di malattia che come un parassita feroce e impalpabile approfitta di ogni filo d’aria per farsi spazio nella nostra vita. 

 
Ma si può essere un po’ più ottimisti, ora che in questi reparti restano solo venti pazienti Covid-19? Non si dice ma la risposta è sì. La grande tempesta è alle spalle. Ci sono stati giorni, a marzo, in cui il Pronto soccorso era affollato come un centro commerciale: una vera onda d’urto di persone, sintomi, tamponi, disperazione e malattia. La terapia intensiva era tutta occupata, come i reparti, stressati da un via vai ossessivo: rispettare le misure e mantenere la calma ed essere al tempo stesso veloci ed efficaci era una scommessa. Duecento posti, sette divisioni: non c’era un letto libero. E continuavano ad arrivare malati, spesso smistati verso altre strutture, con una catena frenetica di montaggio. Ora ce ne sono pochi, sempre gli stessi, alcuni in sub-intensiva, la maggior parte in reparto ordinario, nessun nuovo ingresso da giorni. Il peggio è indubbiamente passato. Ma ogni cosa può ancora succedere: restano a disposizione i reparti dedicati e la rianimazione, non si abbandona la linea, mentre nel resto del nosocomio si riprende la battaglia ad altre malattie infettive. Perché qui con i virus hanno confidenza e li affrontano con grande cautela. Sarà anche per questo che è uno dei pochi ospedali a contagio quasi zero: le misure sono militari nel rigore e nella precisione, osservate al millimetro, la diligenza è massima. È una sfida a due: da una parte il virus, dall’altra la nostra capacità di fare attenzione. Non ci fai paura. Timore, sì. Guai a sottovalutare il pericolo. Ma paura proprio no. 
 

La vestizione è il primo rito. All’esterno delle stanze dedicate ai pazienti Covid, separati a loro volta da una doppia porta e un’area di decantazione. Il rito delle protezioni si fa in due: chi entra nel reparto è l’astronauta, chi no supervisiona. Chi rimane fuori aiuta ad abbottonare tutto l’abbottonabile: neppure un centimetro di pelle scoperto. Complicato muoversi nelle tute che emettono sibili sinistri, sembrano gonfiarsi, ma dalle enormi maschere si può sorridere con gli occhi, e questi infermieri usano tutti gli sguardi possibili per parlare ai pazienti: rassicurarli, sostenerli, incoraggiarli. La cura del morale, conta quanto quella del fisico, in queste stanze isolate. Prima un gesto d’affetto, poi la medicina. Chi si ammala non riceve visite, non vede i familiari, passa tutto il giorno a contare i pensieri, a guardare fuori dalla finestra (e vogliono che i letti siano accanto a quella luce naturale), a sperare in un sorriso. Più i corpi si proteggono, più i cuori si spalancano. Sulle schiene delle tute bianche compaiono scritte a pennarello: a volte per indentificarsi (infermiere, fisioterapista), altre per ridere un po’. Enza, che si occupa della sanificazione, scrive: “Sono una pulitona”. Enzo, l’infermiere, ha disegnato un cuore, e quando entra nelle stanze accarezza i volti pieni di rughe e malinconia: un uomo anziano dai capelli bianchi è collegato a un tubo rosa e ha una espressione stanca; una signora è assopita ma accoglie la carezza. Elena, la fisioterapista, aiuta un paziente che sta meglio a salire su una cyclette, per muovere un po’ le gambe. Le manovre coi malati nei letti sono sempre un abbraccio. Ci si abbandona un po’ per contagiare di umanità corpi troppo soli da troppo tempo. Fuori dalle stanze, un nastro rosso separa le due parti del corridoio: quella di sinistra è attraversata da personale con tute e maschere che sembrano da disastro post atomico, quella di destra è serena, camice e mascherina, da ospedale. Sono i due lati di questo mondo, le due linee della battaglia. Guai a mescolarle ma guai a separarle. Se c’è una cosa che in questo reparto senti dal primo all’ultimo minuto, dalla prima all’ultima porta, da quando entri e ti vestono a quando esci e ti disinfettano, è che si sta insieme. Si lotta insieme. Ci si difende insieme. Si vince insieme.  Leggi l'articolo completo su
Il Mattino