L'ironia è virale ​ma il virus non scherza

L'ironia è virale ma il virus non scherza
Dei molti slogan partoriti dalla stagione del Sessantotto, “Una risata vi seppellirà” resta uno dei più potenti e emblematici. Un motto beffardo,...

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Dei molti slogan partoriti dalla stagione del Sessantotto, “Una risata vi seppellirà” resta uno dei più potenti e emblematici. Un motto beffardo, vitalista, che nel clima di soffocante politicizzazione di quegli anni spazzava via tutti i toni grigi con un getto di colore dirompente che solo una parola d’ordine ben azzeccata può riuscire a fare con tanta efficacia. Ma a cinquant’anni di distanza da quel periodo storico, guardata qui e oggi, quella frase assume un tono sinistro. Angosciante. Perché la minaccia costante del virus, la possibilità concreta di un crollo delle nostre società, ha creato un senso diffuso di crisi dal quale corriamo il rischio di imparare a difenderci con l’aiuto di uno scudo assai difficile da portare, quello dell’ironia in servizio permanente effettivo. In altri termini: stiamo ridendo troppo? Ogni giorno ci scambiamo freneticamente decine di audio divertenti con Whatsapp, inoltriamo battute, diffondiamo meme, condividiamo video umoristici, caricature pungenti, corriamo ai social per postare prima di tutti il commento divertente, la frase arguta, il pensiero provocatorio. Ogni giorno avvertiamo il dovere di comunicare a tutti le nostre idee con sufficienza sarcastica, distacco nichilista, freddure autoreferenziali.


Il virus del pensiero sardonico si moltiplica sui nostri smartphone con una rapidità ancora più impressionante di quella del virus reale che ci sta mettendo in ginocchio. Abbiamo presto messo in soffitta la solidarietà dai balconi, i cori e i canti, gli striscioni e le luci accese alle finestre per fare spazio all’ironia a ogni costo. Siamo saltati dall’empatia al cinismo, dal contatto di condivisione al distacco gelido della risata. Da qualche parte Brecht ha scritto che “chi ride non ha ancora sentito le cattive notizie”. Noi stiamo facendo il contrario: sentiamo le cattive notizie e le ribaltiamo, le immergiamo nell’acqua bollente del grottesco uscendone immunizzati, come Obelix che non può più bere la bevanda miracolosa del druido Panoramix dopo che da piccolo era caduto per intero nel pentolone della pozione magica. Ci stiamo rifugiando nel nostro piccolo privato mentre il mondo collassa. Ci proteggiamo dispiegando l’ironia tra noi e questa crisi, mettendo a repentaglio il nostro dovere di prenderla sul serio. Il meccanismo implacabile di funzionamento dei social tritura tutto, salta dall’indignazione alla battuta, dallo stupore all’alzata di spalle in un istante che non lascia scampo a nessuna forma intermedia di elaborazione o di produzione di un pensiero illuminante. E l’esibizione di disinvoltura costi quel che costi non è la soluzione del problema: è parte di esso. Certo, è il sintomo di un disagio profondo al quale proviamo a reagire. È la spia di una paura che tentiamo di combattere. È un esorcismo contro la pioggia di notizie angoscianti che ci tocca ogni ora. È una delle molte strade che stiamo percorrendo per tentare di superare questa prova imprevista e paurosa. Senza dubbio l’ironia svolge una funzione utile: smonta i falsi miti, decostruisce i luoghi comuni, insegna a non prendersi mai troppo sul serio. Ma stavolta, a salvarci da questa crisi, non sarà la riduzione della complessità di questo tempo infame a un vuoto contenitore di frizzi e lazzi digitali. Invece di miniaturizzare la realtà in una serie di meme dei quali ridere dandoci di gomito – rischiando di smarrire la capacità di riconoscerci nell’Altro, fino a toccare la conseguenza radicale per cui non riusciamo a riconoscerci più nemmeno in noi stessi – dovremmo impegnarci in qualcosa di assai più faticoso, ma proprio per questo infinitamente utile: costruire uno sguardo anche ironico, certo, ma consapevole del mondo com’è, come è diventato e come sarà.

Una risata che non si fermi solo alla distruzione, ma che sia mattone e cemento di una comunità tutta da reinventare. Una risata ribelle nell’unico modo possibile concesso da questa nuova realtà. Lo scrittore David Foster Wallace lo aveva scritto benissimo in un suo saggio del 1990, «E unibus pluram: gli scrittori americani e la televisione”: “I veri ribelli, a quanto mi sembra, corrono il rischio della disapprovazione. I vecchi ribelli postmoderni rischiarono lo scandalo e le urla: shock, disgusto, oltraggio, censura, accuse di socialismo, anarchismo, nichilismo. I rischi di oggi sono diversi. I nuovi ribelli potrebbero essere artisti pronti a rischiare lo sbadiglio, l’esasperazione, il sorrisetto di superiorità, la gomitata d’intesa, la parodia del bravo ironista, il ‘Oh, che banalità’. A rischiare accuse di sdolcinatezza, di melodramma. Di credulità. Di mollezza».


P.S. Questo testo è stato scritto togliendo tutte le “d” eufoniche, come faceva Alberto Arbasino nei suoi libri: un piccolo, commosso omaggio al maestro di ironia intelligente del Novecento italiano.

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Il Mattino