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Se esistesse un registro delle banalità e delle scempiaggini delle cose dette in campagna elettorale – pressoché in ogni campagna elettorale – il capitolo più lungo sarebbe riservato senza dubbio alle periferie. Sarebbe interessante raccoglierle, mettendole in fila a una a una. Un po’ come avrebbe voluto fare il piccolo Gustave Flaubert che, a nove anni, in una sua lettera scriveva: “Siccome c’è una signora che viene da papà e ci racconta sempre delle sciocchezze, io le scriverò”.
In quell’elenco andrebbero a finire le infinite chiacchiere su rigenerazione urbana, rammendo dei tessuti slabbrati, ricomposizione della frattura col centro cittadino, le eterne dichiarazioni sull’importanza delle zone ai margini della città, addirittura le analisi pseudo-antropologiche o psicologiche sulla vitalità e la forza che gli abitanti delle periferie possiederebbero in misura maggiore rispetto a quelli del centro, quasi fosse una dotazione genetica che consente loro di sopportare meglio i problemi e le mille difficoltà quotidiane. Come a dire: sono più abituati, non preoccupatevi per loro più di tanto.
A quel catalogo andrebbe, successivamente, fatta una integrazione più complessa. Non quella relativa alle stupidità, ma quella legata alle buone pratiche, alle intenzioni sinceramente positive, ai progetti per provare a migliorare veramente le condizioni di disagio delle periferie. Quella sarebbe una appendice molto più difficile da scrivere in quanto intrecciata a buone idee e autentici sforzi. Da questo punto di vista, la settimana scorsa ha offerto a Napoli due esempi da manuale.
Fuor di metafora ecologica, va benissimo far arrivare a Scampia più di 400 persone tra matricole e personale, oppure creare a san Giovanni un distretto all’avanguardia per l’ideazione di applicazioni per il digitale. Ma quanto durerà il fiato di questi investimenti se nel frattempo – anzi, no, addirittura prima di essi – ci siamo dimenticati di garantire servizi efficienti, di offrire decoro urbano, di tutelare la sicurezza e di assicurare forme minime di dignità sociale? Se non abbiamo riflettuto a sufficienza sull’uso degli spazi, sulle inesistenti politiche abitative, sui vuoti che si spalancano in un quartiere quando un’azienda delocalizza le produzioni o quando un palazzo viene abbandonato da chi lo abitava o ci lavorava o, ancora, su che cosa accade quando uno slargo senza destinazione viene trasformato in discarica? Quando, in altre parole, ci siamo dimenticati di ragionare su quei luoghi dove si manifesta con maggior prepotenza e urgenza la sofferenza di una città, il disagio dei suoi quartieri, il sentimento di insicurezza e privazione che li affliggono, il senso di abbandono patito dai numerosi operatori, volontari, gruppi, associazioni che ogni giorno provano a dare un minimo di senso al lavoro enormemente faticoso che compiono a contatto con giovani, famiglie, migranti ecc.? Le politiche pubbliche e gli investimenti privati che piovono come un meteorite nell’atmosfera non possono avere vita lunga, perché quella vita se la devono conquistare anche loro giorno dopo giorno in zone che possono tramutarsi anche per loro in sabbie mobili in un solo istante. E a questo non può che provvedere la buona politica, attraverso una progettazione di lungo termine che sappia andare appena un po’ oltre il trionfalismo delle cerimonie d’apertura o delle visite prestigiose. Del resto, come già suggeriva Leo Longanesi, “alla manutenzione l’Italia preferisce l’inaugurazione”.
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