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Alle elezioni amministrative del 1975 il Partito comunista conquistò i sindaci delle principali città. Fu una rivoluzione e nacque “L’Italia del 15 giugno”. Alle elezioni politiche del ’76 era atteso lo storico sorpasso del Pci sulla Dc. I moderati si spaventarono e Indro Montanelli, fresco fondatore del “Giornale”, invitò i suoi lettori a turarsi il naso e a votare Dc. Lo fecero in molti e i democristiani staccarono i comunisti di quattro punti.
Fu il debutto televisivo degli istituti demoscopici. Nello studio del TG1 detti il risultato giusto grazie alla Doxa, mentre il mio amico Mario Pastore sul TG 2 dava il sorpasso comunista per un errore della Demoskopea.
A sinistra si è tornati a invitare l’elettorato a turarsi il naso e votare il Pd per evitare la “minaccia” della destra meloniana. Ma è un’arma a doppio taglio, perché la stessa cosa potrebbero fare tanti moderati che mai hanno votato a destra ma sembrano disposti a farlo per avere un governo stabile e ‘nuovo’ che gli altri attori in campo non sono oggettivamente in grado di offrire.
Se non verranno sconvolti nei grandi numeri i sondaggi di quindici giorni fa (ogni giorno naturalmente ne arrivano di clandestini che circolano tra giornalisti e Palazzo) il centrodestra potrebbe avere una maggioranza autosufficiente. Ma comunque vadano le cose, l’Italia politica che nascerà domenica notte sarà diversa da quella che abbiamo conosciuto. Al di là di minacce e anatemi interni e internazionali degli ultimi giorni, come ha scritto il Financial Times, «Roma e Bruxelles hanno bisogno di collaborare per poter andare avanti».
Giorgia Meloni non è la matta eurofobica che qualcuno vuole immaginare. Sa quali sono le regole del gioco e vedremo semmai se saprà farle interpretare il modo più vicino ai nostri interessi di quanto qualche volta è avvenuto. Salvini e Berlusconi avrebbero scarsa convenienza a smagliare una tela di governo faticosamente ricomposta dopo dodici anni (lo strappo di Fini fu del 2010).
Sarà un’Italia diversa anche perché è stupefacente il ruolo che il reddito di cittadinanza ha avuto nell’ultima fase della campagna elettorale. Sarebbe doloroso e fuorviante rassegnarsi a identificare il Mezzogiorno con una sacca di disperazione legata a un sussidio. Giuseppe Conte, che lì miete voti a mani basse, ha capito il rischio e all’ultim’ora intelligentemente cerca di recuperare una dimensione nazionale che sa di aver perduto. È frustrante constatare come sia difficile separare il più che doveroso sostegno a chi soffre da un assegno che autorizza 850mila persone a non lavorare pur essendo perfettamente in grado di farlo. Il destino di Conte è paradossalmente legato a quello del Pd. Resterà la linea riformista di Letta o prevarrà in un prossimo congresso una vocazione di sinistra più radicale pronta ad allearsi di nuovo con il M5S?
Infine, Calenda, alleato di Renzi che ha salvato intelligentemente ruolo e seggi facendosi (per ora) da parte. Calenda piace a un elettorato elitario che vorrebbe ma non può. Gioca tutto sul “Meloni-non-governerà-mai”. Se la signora lo smentisse, dovrebbe aprire un capitolo nuovo.
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