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Sono temi riproposti ogni anno, ancora più sentiti in questo trentennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Gli insabbiamenti delle indagini, i depistaggi, le coperture di personaggi e interessi extra-mafiosi restano questioni aperte. Mancano undici giorni all’anniversario delle bombe di Capaci, che uccisero i giudici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo con tre agenti della loro scorta. Tra due mesi e sette giorni, invece, ricorre il giorno della strage di via D’Amelio in cui fu ucciso il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta. Nelle ultime 48 ore, le dichiarazioni di alcuni familiari dei magistrati uccisi, ma anche la requisitoria del pm Stefano Luciani al processo sui depistaggi nella prima inchiesta sulla morte di Borsellino hanno riaperto polemiche e ferite che sembrano insanabili.
Accusati di calunnia aggravata sono tre poliziotti: Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Per loro, la Procura di Caltanissetta chiede condanne di 11 anni e 10 mesi per Bo e 9 anni e 6 mesi per gli altri due. Nella prima indagine sulla strage di via D’Amelio, avrebbero spinto un piccolo venditore di sigarette di contrabbando, personaggio estraneo a dinamiche di alte strategia mafiose come Vincenzo Scarantino, a fare rivelazioni su loro indicazione. Attività che, ritiene la Procura di Caltanissetta, i tre agenti avrebbero svolto con l’ex capo delle Mobile palermitana, scomparso nel 2002, Arnaldo La Barbera. Ha spiegato Salvatore De Luca, procuratore capo di Caltanissetta: «Tutti sapevano che Scarantino era personaggio delinquenziale di serie C. Parlare di questo gigantesco e inaudito depistaggio solo legato a motivi di carriera di La Barbera è la giustificazione classica di Cosa nostra».
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Secondo le ipotesi dell’accusa, invece, le false dichiarazioni, ammesse da Scarantino in un’intervista al giornalista Mediaset, Angelo Mangano, poi emersi con il pentimento del boss Gaspare Spatuzza che si auto accusò della strage, avrebbero coperto responsabilità esterne a Cosa nostra.
Due giorni fa, alla presentazione del libro del giornalista Felice Cavallaro, Alfredo Morvillo, fratello del giudice Francesca morta a Capaci, ha fatto riferimento alla campagna elettorale per le regionali in Sicilia, che vede impegnati Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro, condannati in processi di mafia per cui hanno scontato la loro pena, in appoggio al candidato di centrodestra Roberto Lagalla. Ha detto Morvillo: «A 30 anni dalle stragi, la Sicilia è in mano a condannati per mafia». Il giorno dopo, Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo, annunciando che anche quest’anno diserterà le manifestazioni di ricordo delle due stragi, ha ripreso le dichiarazioni di Alfredo Morvillo. Dicendo: «È assurdo che due persone con condanne per mafia possano fare da grandi elettori per le elezioni siciliane. Il problema non è Cuffaro, anche perché nel nostro Paese esiste il diritto all’oblio e ha pagato il suo debito con la giustizia, ma chi accetta il suo appoggio. È un tema di opportunità morale». Poi Salvatore Borsellino ha invitato a «non fare più passerelle con i megafoni della retorica», annunciando che organizzerà una manifestazione all’insegna del silenzio. Totò Cuffaro, ex presidente della Regione Sicilia, che ha scontato una pena a 5 anni per favoreggiamento mafioso, ha fondato una nuova Dc. Replica così alle dichiarazioni di Alfredo Morvillo: «Nonostante la sua autorevole considerazione, che rispetto ma che con educazione non condivido, credo di avere il diritto costituzionalmente riconosciutomi e forse anche il dovere di vivere la mia vita da libero e coltivare il mio impegno politico e sociale dopo avere pagato i miei errori con grande sofferenza». La Sicilia, a 30 anni da Capaci e via D’Amelio, si interroga sulla sua realtà statica.
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Il Mattino