Se il destino dei ragazzi ​di Napoli non è fiction

Se il destino dei ragazzi di Napoli non è fiction
C’è un Francesco Pio (Valda) con il padre ammazzato da un clan, la nonna arrestata per camorra, il fratello che usa la pistola per dirimere una discussione; ha...

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C’è un Francesco Pio (Valda) con il padre ammazzato da un clan, la nonna arrestata per camorra, il fratello che usa la pistola per dirimere una discussione; ha vent’anni, ed è un sopravvissuto: rischiò di non venire al mondo perché il papà aveva accoltellato la madre incinta. E c’è un Francesco Pio (Maimone) che, finita la scuola, riga dritto, si arrabatta con mille lavori, da ultimo il pizzaiolo, e sogna di aprire un locale tutto per sé; ha 18 anni e scherzando dice di aver fatto più mestieri di suo padre. Entrambi vengono da due lembi di periferia di Napoli. Così diversi, eppure così simili. C’è un Francesco Pio che, alla messa in prova dopo una denuncia per droga, viene riabilitato; e c’è un Francesco Pio che si informa su come accedere ai finanziamenti di Resto al Sud per costruirsi un futuro che almeno sia dignitoso.

Sì, un futuro dignitoso. Un futuro. Svanito in un attimo nella notte confusa e caotica di Mergellina, la Mergellina dei ristoranti e dei chioschi di taralli e birrette, della gente che sciama tra le auto bloccate in un infernale conglomerato di lamiere e smog. A due passi da un mare nero e muto.

Un colpo d’arma da fuoco e tutto finisce. Due vite. Non solo quella del ragazzo morto (Francesco Pio Maimone). Ma pure quella del giovane che ha sparato (Francesco Pio Valda). La banalità del male. La ricostruzione più dettagliata di quanto accaduto, l’intervento degli avvocati, l’esito processuale avranno lo spazio e l’eco che meritano, come foglie, rami di un unico albero malato, quell’evento straziante. Ma ci deve essere qualcosa di più del dolore, della rabbia, della indignazione, che deve muoverci a capire come Napoli non possa rifugiarsi dietro il paravento del Caso. Qui di casuale c’è solo la traiettoria di un proiettile, o meglio il luogo dove il Francesco Pio vittima sedeva, davanti a un chiosco con gli amici dopo una serata di lavoro. Il resto no. Non è, non può essere liquidato come fatto fortuito.

Il gesto violento e insensato di Francesco Pio (Valda) è la sconfitta del nostro sistema educativo e rieducativo. Dei patti, degli accordi, delle prove. Si dirà, cinicamente: in percentuale, ragazzi che crescono (?) dentro quel sistema hanno poche possibilità di riscatto. Poche, pochissime. Ma è su quelle poche, pochissime possibilità che bisogna investire gli sforzi più grandi. Altrimenti, non avrebbe senso nulla di quello che viene messo a sistema. Mi ha colpito la dichiarazione al Mattino di Silvia Ricciardi, dell’associazione Jonathan, il suo sgomento, la sua amarezza che è anche la nostra: «Purtroppo dopo 30 anni di lavoro con questi ragazzi e con il “vuoto” istituzionale e di valori che contraddistingue il nostro territorio, nulla ci sorprende più». Come dire: opponiamo a situazioni nuove dispositivi vecchi.

Ragazzi avvezzi a un delirio di onnipotenza che nasce dalla ostentazione di soldi facilmente guadagnati e di simboli distorti che i social amplificano senza che ci sia una barriera. Genitoriale, amicale, comunitaria, sociale in senso largo. Ecco: di fronte a famiglie irresponsabili, che non mandano i figli a scuola, servono misure drastiche. Si passi delle inutili denunce alla cancellazione della patria potestà. E si torni a discutere dell’età punibile: l’elemento repressivo può spaventare ed essere nocivo solo se viene configurato come l’unico argine alla deriva. E non può essere così. 

Si dia alla scuola e ai prof non la medaglia di manifestazioni e convegni entro i quali le parole rimbalzano gioiose prima di finire nel vortice del nulla; ma la reale possibilità di essere incisivi, persuasivi, pervasivi con la “peggio” gioventù che ha bisogno di modelli di verità e di prospettive concrete, non di falsi idoli che bruceranno le loro esistenze.

Si rafforzi l’istituto dell’assistenza sociale. Non c’è bisogno di persone votate al martirio e alla sconfitta, ma di donne e uomini responsabili e professionalmente attrezzati che sappiano salvare (sì, salvare) i ragazzi sbandati con il sostegno reale (ossia logistico ed economico) delle istituzioni.

Si rafforzi il controllo di polizia che riduca sensibilmente l’uso delle armi – pistole e coltelli – che i giovani con disinvoltura e facilità si procurano. Militarizzare Napoli è impossibile, riuscire a dare il senso reale della presenza dello Stato almeno nei luoghi della movida è un obbligo non solo morale, ma civile e sociale. Disarmiamo Napoli, è stato detto e scritto da voci importanti e autorevoli di questa città; è giunto il momento che si passi ai fatti, per azione di chi di dovere: amministratori locali, governo centrale, rappresentanti istituzionali.

Capisco l’obiezione: facile a dirsi, e poi difficile quando non impossibile a farsi se non ci sono i fondi per più agenti, per più docenti, per più strutture, per tutti i mondi che gravitano nell’orbita di un universo, quello giovanile, così sfaccettato, complesso, dilaniato. Però l’inanità sarebbe il peggiore dei mali. Come dire: un Francesco Pio, prima o poi, doveva sparare e un Francesco Pio, prima o poi, doveva morire. La contabilità degli assassini e delle vittime. Vogliamo arrenderci? Vogliamo che la comunità si ritragga, fino a prefigurare poi cosa, uno sfilacciamento inarrestabile dei rapporti sociali, un imbarbarimento della vita pubblica? Ci scandalizzeremo quando i nostri giovani più bravi decideranno tutti, e per sempre, di non godersi solo l’attimo fuggente di uno scudetto in arrivo per andarsene lì dove viene garantita la sicurezza, la vivibilità, l’inclusività, condizioni tollerabili per sé e per gli altri?

Infine, un ultimo ragionamento. Ineludibile. Parziale per visione e propensione culturale. Nella sua opinabilità, avrà lati fragili, contestabili. Ma è giusto almeno parlarne. Napoli sta vivendo un momento d’oro sul fronte della produzione seriale. Non c’è fiction che non abbia Napoli come sfondo. I suoi luoghi. Le sue stratificazioni storiche. Le sue contraddizioni. Tutto emerge come da una antica fucina, che Napoli amplifica enormemente. Dalle tragedie greche, il bene e il male si affrontano sulla scena come forze epiche e opposte, confliggenti. Nessuna novità, dunque; e i nostri bravi scrittori e sceneggiatori sanno ben tradurre e riportare impulsi ancestrali nelle figure della contemporaneità. Continuo però a chiedermi quanto la finzione attinga dalla realtà e quanto la realtà si rimodelli sulla finzione. Quanto i mondi che scandiscono la quotidianità non diventino una sola, informe e non più distinguibile poltiglia di sentimenti per chi non ha gli strumenti per poter distinguere: parlo del nostro ambito comunitario, naturalmente, quello della verità; l’universo violentemente ossessivo, parossistico direi distopico alla Gomorra (la serie); quello che così tanti ragazzi affascina, il microcosmo di Mare Fuori, nell’altalena tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra l’amore e il sangue, come se non ci fossero altre strade per poter vivere al di là di questa (perversa) oscillazione.

Non so darmi una risposta inoppugnabile. Certo, la censura mai e poi mai. Ma una riflessione, senza piccole patrie da difendere, orticelli da tutelare, la trovo necessaria.

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Il Mattino