Gionta: padre, figlio e nipote. Tre generazioni al carcere duro

Gionta: padre, figlio e nipote. Tre generazioni al carcere duro
Cosa passa per la mente di un uomo, rinchiuso in uno spazio di qualche metro quadrato, quando gli viene comunicato che la sua vita continuerà a trascorrere in quegli stessi...

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Cosa passa per la mente di un uomo, rinchiuso in uno spazio di qualche metro quadrato, quando gli viene comunicato che la sua vita continuerà a trascorrere in quegli stessi metri quadrati, potendo ricevere una sola visita mensile di familiari; di poter trascorrere una manciata di minuti all’aaria aperta ma praticamente isolato da qualsivoglia contatto umano, al di fuori degli agenti penitenziari?


Quali pensieri si ingolfano, si sovrappongono nella mente dello stesso uomo quando, nella sua condizione di padre e di nonno, pensa - perché lo avrà pur pensato talora - che per i suoi comportamenti, le sue azioni e le sue decisioni che ancor grondano sangue, ha trascinato con sé, nel baratro del carcere, prima, nel regime detentivo più duro previsto, poi, figli e nipote.



Che cosa ha pensato ieri, il detenuto «Gionta Valentino, nato a Torre Annunziata il 14 gennaio 1953, ex pescatore, ex contrabbandiere, camorrista e mafioso a tempo pieno», detenuto dall’giugno 1985 sempre al regime di carcere duro, quando, per l’ennesima volta, gli è stato prorogato lo stesso regime detentivo, su diretta decisione del ministro della giustizia Andrea Orlando che ha firmato la «scartoffia»nei confronti di «Gionta Valentino, detenuto nel carcere di Ascoli Piceno».



Per una nient’affatto strana congiuntura del destino detentivo, analogo provvedimento è stato recapitato, nel carcere Giuseppe Salvia- Poggioreale ad un altro Valentino Gionta, nipote del precedente, che del nonno ha ereditato non soltanto nome e cognome, ma l’intero peso della reggenza del clan, a leggere le carte dei pm dell’antimafia, sulla base di una corposa indagine dei carabinieri del nucleo investigativo di Torre Annunziata, con il maggiore Leonardo Acquaro, essenzialmente basata su riscontri provenienti dal territorio e, poi, sostenuti anche da . Reggenza implica un contenuto logico di provvisorietà che però ha il sapore di definitivo perché né suo nonno Valentino, né, tantomeno, il suo papà Aldo, in tempi relativamente brevi potranno uscire dalle rispettive residenze e sollevarlo dal gravoso compito.



Per Aldo Gionta, ultima dimora di Stato nota il carcere milanese di Opera, c’è stata già la discussione dei magistrati di sorveglianza di Roma proprio ieri, ma ancora non è stata adottata alcuna decisione che, molto probabilmente, giungerà nella giornata odierna. L’esito, a sentire gli «esperti» della materia, appare scontato. Perché tutti e tre, Capostipite, figlio e nipote, oltre ad essere accomunati dalle medesime sorti dententive, hanno in comune la capacità di comunicare con l’esterno, anche in regime di carcere duro. Nei tempi d’oro del clan, durante i processi degli anni ’90, il boss fondatore, Valentino, comunicava con la moglie, Gemma Donnarumma (anche lei in carcere), in maniera diretta, durante le innumerevoli pause dibattimentali. Il vociare di tutti nell’aula, le frasi in strettissimo dialetto oplontino, non propriamente «afferrabile» in primo ascolto, erano un primo rudimentale mezzo di messaggistica istantanea. Si partiva dalle notizie sui figli, Aldo, Pasquale e Teresa, per passare a richiesta di sussistenza e poi fra un lenzuolo e un maglione s’infilava l’ordine a Tizio o a Caio, di provvedere in una certa maniera per il tale fatto.



Poi i figli crescono, imparano tutto e subito e, forti anche delle conoscente telematiche, adattano le nuove tecnologie ai sistemi tradiziotale. Ed ecco che gli ordini all’esternoi arrivano cuciti alle etichette della biancheria, sottoforma di codici numerici o alfa-numerici. Per non parlare delle poesie che Aldo, soprannominato appunto il boss poeta, dalla sua cella inviava all’esterno. A volte in maniera fin troppo esplicita: scriveva al figlio Valentino jr: «Impara a sparare con il kalashnikov, poi ti dirò io cosa fare». «Fatti furbo, attento alle microspie. E non permetterti di fare qualcosa senza il mio permesso». E sempre Aldo scrive una canzone, «Non può finire», s’intitola, dice: «La vita mia non può finire qui dentro solo perché qualcuno parla di me. Oggi è il mio compleanno, volevo un regalo da Dio, volevo vedere mio padre che ha un destino uguale al mio».

E anche una poesia, «Insensibilmente»: «Voi state cercando di sopprimermi dolce dolce ma non sapete che i carcerati sono tutelati da Gesù bambino e grazie a lui non ci riuscirete mai».



Ma, enl corso degli anni, Aldo fissa sulla carta le varie tappe del suo percorso penitenziario e ne fa un libbricino, Aldulk il ribelle che dedica al nipotino, figlio di Valentino jr, che si chjiama, nemmeno a dirlo, Aldojr. E a pagina 15, come una nemesi, Aldulk il terribile parla della sua prima discussione per il regime di carcere duro, era il 1995. Gli eventi si ripetono.



(ha collaborato Dario Sautto)

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Il Mattino