Il Paese dove le donne non hanno diritto alla giustizia

Il Paese dove le donne non hanno diritto alla giustizia
Ingiustizia è fatta: l’allucinante sistema legislativo pakistano “a due velocità”, che finge di proclamare l’eguaglianza tra uomini e donne...

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Ingiustizia è fatta: l’allucinante sistema legislativo pakistano “a due velocità”, che finge di proclamare l’eguaglianza tra uomini e donne mentre decisamente sostiene la validità della legislazione religiosa della Sharia, ha assolto padre, fratello, zio, madre e conoscenti vari della famiglia di Sana Cheema dall’accusa di averla assassinata e di averne seppellito il corpo. Gli undici indagati sono stati rilasciati con una motivazione, “insufficienza di prove”, che brucia come un tizzone ardente, sa di sberleffo inaccettabile. Uno sberleffo non solo in faccia ai diritti delle donne, ma al senso stesso della democrazia che, con il vecchio Montesquieu, identificava lo spirito delle leggi nella giustizia e nell’equità, fondate su quella natura umana che è uguale in tutti e identica sempre. 


Non in Pakistan, Paese indicato al 144mo posto – il penultimo nel mondo in cui “conviene” nascere donna – dal Global Gender Gap Report.

Dunque, per la legge pakistana non c’erano indizi sufficienti per dichiarare colpevoli gli undici vigliacchi, tra parenti e amici con in testa il padre, uniti per stroncare l’illusione di libertà della ragazza cresciuta a Brescia e decisa a rifiutare il matrimonio combinato con un uomo che lei non voleva. E non era forse una prova il collo spezzato di Sana, che perfino un medico pakistano aveva indicato come prova di strangolamento? Non lo era quella sepoltura fatta in fretta e furia, per cancellarne ogni traccia adducendo il pretesto di una morte per malore – guarda caso – manifestatosi appena la ragazza, con un inganno, era rientrata in patria? Non era stata eloquente la confessione piena e dettagliata resa dal padre lo scorso maggio, di cui avevano scritto gli stessi quotidiani pakistani non esattamente famosi per esibire il coraggio della verità? O ancora, il tentativo di fuga di quei ceffi capitati in sorte come parenti alla ragazza di venticinque anni non stava a suggerire la volontà di eclissarsi e una non tanto implicita colpevolezza?

Interrogativi retorici, cui se ne aggiunge un altro che retorico non è: il vicepremier Salvini dice che “ è una vergogna, scriverò al ministro pakistano”. Chissà che cosa gli scriverà. Ma sicuro che l’Italia non poteva far nulla, che non poteva muoversi per tempo perché fosse impedito un simile esito giudiziario? Insomma mostrare una volta tanto i muscoli per una causa degna, in difesa di una ragazza in fin dei conti cresciuta qui? 

In un’altra occasione, lo scorso maggio, c’è stata una ragazza sfuggita all’identica sorte infame riservata a Sana: Farah, ventenne italo-pakistana da anni a Verona, rimasta incinta del suo ragazzo, portata con la forza nel Paese d’origine, legata al letto e costretta ad abortire. Una mobilitazione consistente, su media e social vari, fu utile a liberarla per ricondurla in Italia. Ma anche se il destino di Sana si è chiuso tragicamente, come quello toccato a un’altra ragazza pakistana, Hina Saleem nell’agosto del 2006, noi italiani, europei, cittadini di Paesi democratici, le dobbiamo almeno giustizia. Perché non possiamo certo farci abbindolare da ridicole operazioni di facciata, come concedere alle donne il permesso di guidare come da poco avviene in Arabia Saudita, lasciare un settore di posti riservati alle donne allo stadio o istituire un corpo femminile di vigili urbani, com’è stato deciso di recente a Lahore. 

In Paesi in cui ancora vigono le attenuanti per il delitto d’onore – peraltro abolito in Italia solo nel 1981, non lo ripeteremo mai abbastanza spesso – e in cui le vittime di stupro non possono utilizzare l’impronta genetica per dimostrare le responsabilità dei loro aggressori, vige una visione del mondo sigillata nel proprio ottuso insieme di tabù che inchiodano le donne. E lo mostra bene il film di Iram Haq “Cosa dirà la gente”, fin nel titolo evocativo dei guasti per l’esistenza delle donne di un patriarcato rigido e implacabile. Così tocca lavorare molto per sconfiggere l’agghiacciante durezza dell’oppressione agita sulle proprie figlie da padri trasformati in gendarmi, aguzzini, massacratori, spesso con la complicità delle mogli e degli altri figli. Senza ignorare un possibile “effetto contagio” che ci faccia precipitare indietro anche qui, anche nei nostri Paesi, dove le conquiste delle lotte delle donne non sono né scontate né per sempre. Insomma: è così difficile indignarsi attivamente, cioè contestare verdetti come quello pakistano, esigendo una nuova analisi del caso, condotta in base a criteri di giustizia equi? Leggi l'articolo completo su
Il Mattino