Il voto inglese e le due idee sull'Europa

Il voto inglese e le due idee sull'Europa
Le elezioni odierne nel Regno Unito suscitano il nostro interesse e un’attenzione diversa dal consueto almeno per due ragioni: la prima, più evidente, è la...

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Le elezioni odierne nel Regno Unito suscitano il nostro interesse e un’attenzione diversa dal consueto almeno per due ragioni: la prima, più evidente, è la Brexit. Diversamente da altre elezioni nazionali, si ha la chiara impressione che oggi non è in gioco soltanto la vita politica britannica, ma anche quella dell’Europa, almeno in una certa misura. In effetti, queste elezioni anticipate sono il frutto di una crisi politica legata alla Brexit, o meglio alla difficoltà di attuarla. Ricordiamo brevemente, di seguito, le «vittime» della Brexit nel campo dei Tories.


Iniziamo con Cameron, che aveva voluto il referendum (pensando che il remain avrebbe vinto) per ragioni interne al suo partito si è dimesso subito, conscio della difficoltà di portare avanti il processo; Theresa May ci ha provato in tutti i modi ma, fallendo, si è a sua volta ritirata, lasciando il campo a Boris Johnson, il quale è partito con il piglio (e a detta di molti la boria) che gli è proprio, ma è naufragato al pari degli altri. Se lo dovessero rieleggere avrà modo di riprendere il colloquio con i vertici dell’Unione Europea o andrà verso la hard Brexit: ancora non è chiaro in che modo, ma insomma il favore nei suoi confronti (o verso partiti ancora più convinti di una uscita dall’Unione a qualsiasi costo, come l’UKIP di Farage) significherebbe quasi un secondo referendum pro Brexit.

Dall’altra parte c’è Jeremy Corbyn, la cui ascesa ai vertici del Labour è stata difficile per l’opposizione interna (molti lo vedono come troppo radicale nella politica tanto interna quanto estera), ma anche accompagnata da una dose di entusiasmo soprattutto giovanile che non si registrava da tempo per alcun leader occidentale. Cosa pensi Corbyn della Brexit non è chiarissimo: poiché i suoi potenziali elettori sono in larga parte europeisti, ha preso posizione individuale a favore del remain, dicendo tuttavia che come primo ministro lascerebbe campo aperto a un nuovo dibattito, forse a un nuovo referendum, e sarebbe dunque neutrale perché rappresentante di tutti, pro e contro la Brexit. Al di là di queste dichiarazioni, si nota la scarsa simpatia di Corbyn per una Unione Europea ultraliberista, che certo non vedrebbe di buon occhio iniziative da lui auspicate come per esempio la rinazionalizzazione delle ferrovie; e d’altra parte il leader del Labour si rende conto che la Brexit regalerebbe il mercato britannico agli Stati Uniti, poiché già Trump ha affermato che nelle negoziazioni post-Brexit tutto, inclusa la sanità, sarà sul tappeto. Insomma, anche peggio della UE.

La seconda ragione del nostro interesse, anche se meno evidente della prima, viene dalla profonda differenza fra i due candidati principali. Boris Johnson è un prodotto di Eton, ossia della «fabbrica» dei ceti dirigenti conservatori del paese; dall’altro abbiamo Jeremy Corbyn, che certo non è un giovane politico, ma anzi viene da una «vecchia» formazione socialista che propone ricette per curare la società che sembravano, prima della sua ascesa, parte del passato. Quale politico parla oggi di equità sociale, di nazionalizzazioni di ciò che è stato «regalato» ai privati (vengono in mente le Autostrade d’Italia), di finanziamenti massicci ai settori pubblici? È un linguaggio, il suo, che sembra rimuovere la politica degli ultimi 40 anni, diciamo dall’era Reagan/Thatcher in poi. La propaganda pro Labour mostra i nuovi poveri abbandonati dallo smantellamento del Welfare e del sistema sanitario nazionale (NHS), settori che hanno subito i drastici tagli voluti dai conservatori al governo, ma anche da quei leader del Laburismo come Tony Blair che hanno rinunciato alle origini «sociali» del partito. Uno spot che circolava nei giorni scorsi mostrava da una parte il debito della sanità pubblica, pari a 2,45 miliardi di sterline, dall’altra una fotografia del giovane erede dei Westminster, il quale grazie ai sotterfugi che la legge consente (ai ricchi) ha evitato di pagare 3,6 miliardi di sterline di tasse: più dell’intero debito della NHS. 

Le rivolte sociali che sembrano attraversare il nostro presente, dalla Francia al Cile, dove in tanti puntano il dito contro i pochissimi che detengono le chiavi dell’economia mondiale mentre la povertà guadagna terreno non soltanto nel Terzo Mondo, ma anche a danno delle borghesie occidentali, dicono che il successo di un promotore di riforme qual è Corbyn dovrebbe essere scontato, e invece così non è: anzi, i sondaggi danno i Tories e in generale le destre in vantaggio. Il fatto è che i decenni di «pensiero unico» in campo economico-sociale rendono oggi per molti difficile anche solo immaginare un’alternativa allo stato delle cose; e così i nuovi poveri, invece di puntare il dito contro chi li impoverisce, guardano piuttosto al problema dell’immigrazione, si fanno distrarre dalla paura dell’ «altro».


A ciò si aggiunga un ultimo dato: Corbyn ha dichiarato più volte che sospenderebbe le vendite di armi ai Sauditi, che le usano per bombardare i civili sciiti in Yemen, e che sarebbe a favore di uno stato per i palestinesi. Queste sue dichiarazioni hanno fatto sì che persino organi di stampa tradizionalmente favorevoli alle sinistre si siano apertamente schierati contro di lui: tali sono gli interessi economici nel Regno Unito dei partner del Vicino Oriente da poter orientare anche la stampa. Alla luce di tutto questo è lecito pensare che Boris Johnson avrà la meglio; e tuttavia sarebbe errato considerare la battaglia di Corbyn come massimalista, perché mai come oggi è necessario un pensiero realmente alternativo sulle questioni politiche, sociali, economiche e ambientali. Forse questo dicembre 2019 non vedrà il cambiamento, ma un seme è stato gettato. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino