L'araba fenice delle riforme strutturali

L'araba fenice delle riforme strutturali
Quando il Paese si trova ad attraversare momenti di fibrillazione economica e di difficoltà sociale (come l’attuale), la Politica (e non solo) si rifugia molto spesso...

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Quando il Paese si trova ad attraversare momenti di fibrillazione economica e di difficoltà sociale (come l’attuale), la Politica (e non solo) si rifugia molto spesso nell’affrontare i grandi e nobili temi che coinvolgono l’umanità – come, ad esempio, il ruolo dell’Europa di domani e l’importanza del green new deal, sui quali non appare difficile essere d’accordo - oppure tematiche delle quali i cittadini non sembrano avvertirne né la tempestività, né tantomeno l’urgenza (si pensi al taglio dei parlamentari e alla futura legge elettorale).


Il problema è che nel frattempo le disuguaglianze sociali in termini di redditi familiari non si attenuano (lo dice l’Istat in un recentissimo report), l’occupazione ristagna (siamo in ritardo di almeno 10 punti percentuali rispetto al tasso medio europeo, poco meno del 60% contro il 70% circa), non appaiono in dirittura di arrivo le soluzioni per l’ex-Ilva, per l’Alitalia e per altre numerose crisi aziendali (al di là del “sempre verde” intervento pubblico) e la legge di Bilancio è sottoposta a continui cambiamenti e/o rinvii derivanti dagli estenuanti contrasti esistenti nella compagine governativa, evidenziando così una certa mancanza di strategia complessiva. Naturalmente resta sullo sfondo l’enorme debito pubblico (e relativo deficit) con il quale doversi “quotidianamente” confrontare. La situazione appare talmente complicata che ultimamente ci siamo “aggrappati” al giudizio dell’agenzia Fitch – crescita del Pil dello 0,2% nel 2019 e previsione economica da negativa a stabile per il 2020 – come ad un risultato da “festeggiare”. La verità è che non si riescono ad avviare in pieno le indispensabili – e non più rinviabili - riforme necessarie per “migliorare” questo complicato Paese, ma vengono a volte appena “sfiorate” come se fossero veri e propri dogmi. Spieghiamoci meglio: da alcuni giorni, ad esempio, tiene banco la questione del Mes (Meccanismo Europeo di Stabilità) e, come sempre accade in queste circostanze, ci siamo divisi in “Guelfi e Ghibellini”, ovvero tra sostenitori e detrattori della suddetta riforma, sfuggendo però alla vera domanda da porsi, al di là dei relativi aspetti meramente tecnici: fino a quando potrà crescere il debito pubblico per considerarlo ancora sostenibile (oggi viaggia su valori intorno ai 2450 miliardi di Euro, con un aumento del 5% rispetto al 2017 e con una quota “nelle mani” dei residenti in aumento, dal 68% al 70% circa, fonte Bankitalia)? Ci rendiamo conto che il reale problema è nella risposta da fornire a questo quesito? Sembrerebbe di no, visto che i provvedimenti contenuti nella manovra di quest’anno (ma anche di quelle degli ultimi decenni) sono finanziati – in accordo con l’Ue - prevalentemente in deficit, cioè non con risorse a disposizione del Paese, ma prendendole, per così dire, in prestito dai mercati e sulle quali paghiamo consistenti interessi (e prima o poi i debiti contratti dovranno essere restituiti) e non bisogna, quindi, andare oggi particolarmente “orgogliosi” di un tale comportamento. Se continuiamo a fare manovre di bilancio in deficit, senza collocare il debito su una stabile traiettoria discendente, quest’ultimo continuerà a lievitare e gli effetti condizioneranno negativamente le prospettive economiche di medio e di lungo periodo del nostro Paese, anche con un Pil in aumento che ragionevolmente, nel prossimo biennio, non sarà mediamente superiore allo 0,5% annuo (1,2% nell’area Euro), dato che sempre l’Istat ci comunica come siano in difficoltà i principali fattori di crescita (la variazione annua della domanda interna passerà dallo 0,8% del 2019 allo 0,7% del 2020, quella estera dallo 0,2% allo 0,1%, le retribuzioni per unità di lavoro dallo 0,7% allo 0,6% e il tasso di disoccupazione rimarrà più o meno costante intorno al 10%). E qui viene la seconda domanda alla quale manca sempre la risposta: quale sarà il modello occupazionale del Paese nei prossimi anni e con quali riforme “intercettarlo”? E poi, sarà possibile applicarlo in maniera uniforme su tutto il territorio, oppure sarà necessario diversificarlo, considerando che, come già evidenziato da queste colonne, nel Mezzogiorno si lavora di più rispetto al resto del Paese ma si produce di meno? Occorre agire su più fronti tra loro interconnessi: su quello della formazione investendo nel sistema educativo di qualità in vista dei nuovi lavori che l’automazione e l’intelligenza artificiale produrranno; al tempo stesso sarebbe quanto mai produttivo investire sia nelle opere infrastrutturali (sbloccando i cantieri già individuati) per rilanciare l’occupazione “tradizionale” ma anche, e soprattutto nel Sud, in innovazione tecnologica e nell’economia circolare, cioè i nuovi fronti della “moderna occupazione”, così da ridurre i divari esistenti tra le diverse aree del Paese e accostare i nostri livelli occupazionali a quelli medi europei, magari premiando l’aumento della produttività e non limitarci soltanto a ridurre (di poco) il cuneo fiscale oppure attribuendo incentivi alle imprese per far assumere (ricordiamo, tra l’altro, che il tasso medio annuo di crescita della produttività del lavoro è stata in Italia, nell’ultimo quinquennio, dello 0,3% a fronte dell’1,4% nella Ue). Dove reperire le necessarie risorse? La “cura” è sempre la stessa, soltanto che deve essere somministrata convintamente (un efficace e non effimero contrasto all’evasione fiscale e contributiva, una chiara destinazione delle risorse recuperate da “quota 100” e dal Reddito di Cittadinanza, un’attenta revisione della spesa pubblica, un’illuminata rimodulazione dell’Iva). Come si può vedere è necessario intervenire tempestivamente, con scelte coraggiose e a volte difficili ma, se effettuate, porterebbero benefici enormi al Paese nei prossimi anni – oltre a restituirgli il ruolo e la credibilità che merita - e senza le quali, invece, il tempo ci “costringerà” a prendere decisioni in condizioni di maggiore affanno e, di conseguenza, più dolorose. 
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Il Mattino