Molto si dibatte, soprattutto in questi giorni che precedono il Natale, su Napoli - verrebbe da dire: che novità - o, meglio, sull’immaginario allestito da e su...
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Trattasi di fenomeno che oggi registra un picco significativo ad ampio spettro di pubblico ma che non può dirsi recente o di nuovo conio. Ciclicamente Napoli ha creato quest’apparato complesso, ardito e classico insieme. Il nodo, vero, forse è un altro. Il discorso andrebbe infatti spostato su un nervo più scoperto: Napoli è la sua immagine - per taluni arte che si rinnova, per altri stereotipo di facile spendibilità - oppure la città non si rispecchia in ciò che, bene o male, essa stessa realizza?
Forse è arrivato il momento di valutare con cognizione di causa l’ipotesi che Napoli sia realmente la sua immagine. Non altro. Con i camorristi, i pastori, i commissari, i cantanti, i turisti, le amiche geniali e quant’altro, la città lazzara e quella borghese (o di ciò che resta di una borghesia passiva e talvolta smidollata) per rifarci agli esempi più classici richiamati ieri da Titti Marrone sul Mattino. Quest’incredibile flusso di narrazioni modella una identità forte - a dispetto di quanto scrive Paolo Macry nel suo ultimo, bel saggio Napoli. Nostalgia di domani, che invece parla di «identità debole che si squaderna di fronte ai nuovi venuti» - senza paragoni plausibili: Milano, Roma, Torino, Palermo, Venezia - tanto per restare nel perimetro nazionale - sono mai state capaci di sviluppare un immaginario molteplice così marcato? Facilmente intuibile la risposta. Ora, il cortocircuito sta nel fatto che una identità così forte, e così palesemente accettata, non risponde a una comunità forte, anzi è determinata e poi reinterpretata da una comunità questa sì debole, frantumata se non dissolta. Sì, un paradosso: più l’identità, stratificata e in continua evoluzione, è marcata, più la società di riferimento è fragile, irresoluta, esitante se non stremata. La città, camaleontica, si è come adagiata sulla immagine che vuole dare di sé, bella o brutta che sia, perché questa identità rende sotto ogni profilo - persino economico. Si è manifestato un processo di assimilazione per cui, oggi, è impossibile discernere il vero dal falso, e persino stucchevoli rischiano di diventare le consuete diatribe su una fiction come Gomorra per la quale è impossibile stabilire chi ha copiato cosa - se le scorribande della paranza di Sibillo sono l’effetto di emulazione della serie tv o viceversa, se gli sceneggiatori sono stati bravi a cogliere un fenomeno che la realtà ci ha poi buttato addosso con crudezza. Certo, l’identità è figlia di una storia complessa e di una cultura articolata, e non è certo questa l’occasione per ripercorrerne le tappe; sta di fatto, però, che la collettività che la esprime si è rinchiusa in se stessa, prigioniera delle sue mollezze e delle sue contraddizioni, oggi più rassegnata che mai alla pantomima delle Grandi Occasioni Perdute, capace di litigare per una griglia di pochi metri quadrati al Plebiscito e di non schiumare rabbia per quanto da decenni (non) accade a Bagnoli, sineddoche per eccellenza di una certa miseranda condizione di Napoli.
Quando Bassolino, da sindaco, cercò di coniugare efficienza e bellezza (il metrò dell’arte come simbolo di questo proposito), si pose l’intento di ribaltare logori cliché e una retorica d’accatto che aveva svilito Napoli (anche per responsabilità locali nella prima era del post-terremoto), per recuperare un senso di fierezza e appartenenza tradotto in una città che sapesse poi confrontarsi con altre e più evolute realtà metropolitane. L’orgoglio della bellezza è stato per certi aspetti ritrovato (rifiuti a parte), l’efficienza purtroppo no. Alla fine, la macchina dell’immagine ha ripreso il sopravvento. E ha rimesso in sesto una vecchia/nuova identità napoletana, nella consapevolezza che solo questa è possibile governare e alimentare (come fa De Magistris), mostrandola senza pudore per quello che è, tra incanto e inferno, tradizione e modernità, felicità e pianto. Quindi - con gli attuali amministratori - non si governa una città ma un popolo, una identità e non una comunità. Al turista - che alimenta l’unica economia possibile - poco importa che i bus non arrivino mai, che le strade siano perfette per un rally (con parcheggiatori rigorosamente presenti a ogni angolo), che certe zone, periferiche come centrali, siano contenitori di persone esposte al degrado e alle scorribande di piccola e grande criminalità. Anzi, cerca anche questo lessico - oltre ai set, veri o falsi, dei Bastardi, di Gomorra, dell’Amica geniale. E la città non fa più una piega: permette passivamente che la sua immagine diventi identità e prodotto commerciale (con tutte le sfumature artistiche che vogliamo comunque ricercare ed evidenziare).
Ecco: Napoli partecipa alla quotidiana recita della propria condizione, oleografica o meno che sia, perché ha maturato lo stato di chi non vuole, o non sa, più fuggire dalla propria gabbia, pur dorata. Piace, sa di piacere così, preferisce piacere così: una icona plurale, e in chiaroscuro, dove la sua anima più profonda aderisce plasticamente allo storytelling.
Il rischio di un pulcinellismo di ritorno - come ha scritto Vittorio Del Tufo sul Mattino - ormai non è più un rischio. Direi, e non sia liquidata come una provocazione, una certezza. Come i pastori: c’erano nel presepe di Eduardo, ci sono oggi in quello di Netflix. E tutti vissero felici e contenti. Su altro, a Napoli, meglio non interrogarsi: tanto, domani sarà sempre lo stesso giorno. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino