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In un articolo sul New Yorker, la plateale forzatura di Trump sulla consegna del testimone a Biden viene presentata come una prova generale di quello che potrebbe accadere al prossimo round. Che sia lui – o un altro repubblicano – a tentare il colpaccio. Si parva licet, il rimpastone di governo clamorosamente annunciato sulla stampa e altrettanto clamorosamente smentito dal premier e dal Quirinale rientra in un analogo palinsesto di anteprima mediatico di quello che alcuni vorrebbero accadesse. Ma non sono – almeno per il momento – in condizione di ottenere. Più prosaicamente, un modo – maldestro o malizioso – di «vedere di nascosto l’effetto che fa».
Lasciamo stare le valutazioni di merito su se e quale ministro andrebbe sostituito e come la squadra al governo potrebbe essere migliorata. I politici non sono manager, e per quanto l’efficienza sia importante dipende molto poco dalle doti individuali. Un pezzo da novanta come Arcuri, le cui qualità tecnocratiche e gestionali pochi mettono in dubbio, ha impiegato sei mesi per cominciare a venire a capo del guazzabuglio amministrativo e procedurale con cui approvvigionarsi delle centinaia di risorse – umane e materiali – indispensabili a fronteggiare la pandemia. «Migliorare la squadra» è il paravento per una manovra che è squisitamente politica, e si riassume in due parole: disarcionare il premier.
Però, nella repubblica parlamentare - e non primoministeriale – in cui siamo, sanno tutti che l’unico modo per sostituire un ministro è che se ne vada via di propria iniziativa.
La risposta è quella del New Yorker. Ci sono gruppi politici, e alcuni leader con nome e cognome, che, insieme a gruppi economici di peso internazionale rilevante, hanno una voglia matta di sbarazzarsi del governo Conte. Sanno perfettamente che la strada data per certa l’altro ieri sui giornali è impercorribile. Ma sanno anche che la simulazione messa in scena in queste ore aumenta la pressione, fa lievitare il tasso di nervosismo e di sfiducia reciproca. Fa crescere, in definitiva, le difficoltà dell’esecutivo, che già – di suo – ne ha parecchie da smaltire.
Non chiamatelo gioco al massacro. Semplicemente, è il gioco politico. Comprensibile – se non giustificabile – vista l’enorme portata della posta in gioco nei prossimi mesi. La partita del Recovery Fund, con tutti i suoi annessi e connessi, è di quelle che, in un sistema politico, avvengono una volta ogni cent’anni. E chi si trova in cabina di regia, ha la possibilità di dirigere flussi finanziari incalcolabili. Sia dal punto di vista strategico, per le scelte che guideranno il paese almeno per i prossimi vent’anni. Sia dal punto di vista della sfida tra i grandi gruppi aziendali in pista. Che già stanno affilando le armi.
Già. Trovarsi in cabina di regia. Visto che cambiare i ministri è un risico che può funzionare sui giornali ma molto meno in parlamento, non sarebbe meglio spostare i centri decisionali che contano in una sorta di esecutivo parallelo? La cabina di regia tecnocratica, con sei manager e 300 esperti, appena preannunciata dal governo potrebbe essere la soluzione per calmare un po’ di appetiti. O soltanto un’altra messinscena. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino