Il mandato esplorativo al presidente del Senato è la scelta giusta, che risponde a un corretto ragionamento costituzionale. Innanzitutto perché tiene conto del voto...
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L’avere scelto il presidente del Senato, poi, risponde a una prassi costituzionale, che vuole nella seconda carica dello Stato la persona più indicata per svolgere il mandato esplorativo presso le forze politiche. Va ricordato, infatti, che il presidente del Senato è il presidente supplente della Repubblica, pertanto è come se andasse a integrare e approfondire quanto già fatto dal capo dello Stato nelle sue consultazioni. Vi è, fra i due, un canale diretto che consente a entrambi di trovare modi e metodi per addivenire a una soluzione: la migliore per chi deve nominare il presidente del Consiglio e per chi deve guidare l’assemblea, sia pure una delle due, dove la maggioranza parlamentare svolge la sua funzione di indirizzo.
L’attribuzione chiara di un mandato, inoltre, ha fatto valere un principio rilevante, che dovrebbe essere sempre presente in politica: quello della responsabilità. Nei confronti della coalizione di liste risultate maggioritarie alle elezioni; nei confronti del presidente del Senato, che deve provare a riuscire a trovare la soluzione; nei confronti della forza politica della quale fa parte il presidente del Senato, che deve mostrarsi collaborativa per favorire il successo dell’iniziativa, che addirittura potrebbe portare il presidente del Senato a divenire presidente del Consiglio.
Ancora: la scelta del presidente del Senato è anche l’indicazione della riproposizione della elezione dello stesso e del suo omologo alla Camera. E quindi, si deve partire da lì: dalla elezione congiunta dei due presidenti, quale primo atto di una possibile alleanza fra le forze politiche per creare una maggioranza parlamentare e per formare un governo.
Certo, non è una strada obbligata. È possibile che emergano altre geometrie parlamentari, ma il primo sforzo deve essere finalizzato a una maggioranza fra la coalizione di liste e la lista che hanno avuto il maggiore consenso elettorale. Occorre trovare un accordo di programma, piuttosto che dividersi sui nomi e le personalità politiche. Non è edificante porre veti sulle persone. Quello che conta è proporre progetti politici e di governo da realizzare per il tramite delle persone. Vorrei dire che nelle democrazie liberali conta più quello che si riesce a fare per la collettività piuttosto chi lo ha fatto, ammesso davvero che fosse solo davvero merito suo.
Abbiamo sentito evocare metafore d’altri tempi, come quella dei due forni; elaborare tatticismi e personalismi per bloccare collaborazioni politiche; minacciare o promettere trasformismi parlamentari per garantire a lungo la durata della legislatura. Abbiamo ascoltato vecchia e stonata musica, che suona come un déjà vu. Nessuno sembra volere ricordarsi che il Paese ha bisogno di un governo sorretto prima ancora che da una fiducia parlamentare dalla fiducia dei cittadini, che si basa sulla realizzazione di un programma delle cose da fare.
Governo viene da gubernare, ovvero reggere il timone. Per impedire che la nave affondi. Quindi ci vuole un gesto di consapevole responsabilità, che prevalga sull’indifferenza. Torna alla mente quella storiella dei due amici sulla nave nel mare in tempesta, e l’uno che va a svegliare l’altro per dirgli «guarda che se va avanti così la nave affonda» e l’altro, senza smuoversi, rispondere «e che mi importa? Mica è mia». L’indifferenza mescolata con l’arroganza è il pericolo maggiore che incombe sulla road map del presidente del Senato.
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Il Mattino