La libertà non è ideologia ma lavoro

La libertà non è ideologia ma lavoro
In un articolo sul quotidiano «Il Dubbio» un illustre sociologo della comunicazione come Alberto Abruzzese con grande rispetto personale, di cui lo ringrazio, mi ha...

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In un articolo sul quotidiano «Il Dubbio» un illustre sociologo della comunicazione come Alberto Abruzzese con grande rispetto personale, di cui lo ringrazio, mi ha contestato una grave colpa culturale, che io avrei consumata qualche giorno prima, criticando «i social senza la società» sulle pagine di questo giornale. Egli mi attribuisce la tesi di fondo che «la socializzazione prodotta da linguaggi digitali…non costruirebbe più società, come dire civilizzazione e civiltà, ma opererebbe alla sua distruzione, come a dire al suo imbarbarimento e di fatto alla sua disgregazione». Insomma io sono accusato di accusare, e questo mio accusare sarebbe doppiamente colpevole: esprimerebbe una «ideologia» e dunque, marxianamente, una «falsa coscienza», e per di più un’ideologia che stupidamente resiste sulla soglia ormai del suo inesorabile trapasso. Nella specie questa, dal cui punto di vista io mi porrei, sarebbe l’ «ideologia umanista».

Il testo di Abruzzese è un’onda in piena di ragionamenti che si accavallano e intrecciano nel fuoco di una veemente passione intellettuale. Mentre freme di provocare le mie risposte, l’autorevole censore avverte tuttavia, come per precauzione, che l’eventuale accreditarsi con citazioni di prestigiosi autori «aprirebbe tra me e lui una discussione senza vinti e senza vincitori», poiché sarebbe un discorso «filosofico», cioè ideologicamente sterilizzato dalla pretesa di non essere ideologico, di essere fuori della mischia.
Per rispetto dell’interpellante e dei lettori, sono obbligato a imbastire un’almeno provvisoria difesa dalla complessa accusa, per rispondere pubblicamente ad una pubblica e assai seria 
Pro-vocazione. Ne verrà forse qualche modesto contributo al chiarimento di una questione che viene da lontano e che appunto le opposte «ideologie» rendono virulenta.
Primo. Passaggi come, per esempio, quello dal cavallo al treno o dalla posta alla radio sono cambiamenti tecnici che fanno tutt’uno con l’impetuoso sviluppo del capitalismo industriale. Secondo la critica marxiana, cui Abruzzese si richiama, essi sono la base materiale di un’’«ideologia», ovvero dell’elaborazione mentale, con cui in una società complessa una parte minoritaria, una classe, «egemone» per il suo potere economico e conoscitivo, si appropria del potere politico, sublimando come valori universali i suoi interessi particolari e nutrendosi così di una “falsa coscienza”. Domando subito: resta forse la rivoluzione digitale una pura trasformazione tecnica, senza alcun elemento ideologico, sicché la coscienza di chi la sostiene è pura da falsità? Sarebbe un’eccezione al principio enunciato. Se si verificasse, essa contraddirebbe appunto la tesi che la cultura dominante sia “ideologia” e “falsa coscienza”. Certo so bene che il principio animatore delle lotte portate avanti contro il capitalismo è l’idea di un rovesciamento radicale del rapporto cultura-potere, così che finalmente gli sfruttati e i repressi siano liberati al loro desiderio e alla loro libertà. Ma dal vecchio al nuovo c’è sempre un lungo e difficile passaggio, la cui gestione, come la storia insegna, comporta via via il formarsi di nuovi coaguli d’interessi particolari, dominanti come guide o avanguardie, e dunque ancora espressi in ideologia e falsa coscienza. Non è forse perciò che Benjamin, prima evocato da me, però non meno poi richiamato da Abruzzese, criticò il continuum deterministico degli storicismi riformistici e immaginò l’utopia del «tempo messianico», cioè di un repentino, nel cui attimo si condensa la rottura rivoluzionaria?
Secondo. La polemica di Abruzzese oggettivamente si regge su un tipico trucco retorico: difendersi dalla critica rivolta a qualche parte pur piccola di un sistema, enfatizzandola come attacco all’intero sistema, e in tal modo discreditandola come eversiva. Così l’illustre collega, pur avendomi all’inizio attribuito la specifica critica della «socializzazione prodotta dai linguaggi digitali», finisce poi per considerarmi un chierico del paradigma umanistico, «basato sulla libertà in sé e per sé dell’essere umano» e perciò sospetto di falsa coscienza. Ma il fatto è che, nell’articolo in questione, la mia critica non è alla tecnologia digitale in genere, bensì al dominio incontrollato e, al limite, incontrollabile, dei «big data» come potenti macchine di controllo e condizionamento capillare della libertà. Questo dominio del resto risponde oggettivamente alla dinamica tendenziale della società tecnologica, tanto che già nel 1968 Jürgen Habermas dava per probabili entro i successivi 33 anni «un grosso numero di tecniche di controllo e di modificazione della personalità». In ogni modo, presentare come gesto di umanismo ideologico la denunzia del pericolo, si badi bene, non della tecnologia digitale ma di una sua particolare applicazione, che sfrutta desideri e condiziona scelte a livello di massa, non è corretto, come non lo sarebbe accusare d’ideologia antiscientifica chi protestasse, non contro la fisica nucleare, ma contro la bomba atomica.
Terzo. Quanto al mio personale punto di vista, messo direttamente in questione dall’articolo di Abruzzese, ricordo che il lungo capitolo finale di un mio libro del 2011 cominciava con queste parole: «La più potente espressione della libertà è la tecnica. La tecnica a sua volta sembra la più promettente occasione storica della libertà». Tutto qui. Altro che «ideologia umanista»! In sé la tecnica non è la libertà, come non è il suo contrario. Essa, formidabile e incessante invenzione umana, è un potentissimo mezzo o, come allora dicevo, una «occasione» di libertà. Cogliere questa occasione è la sfida che nel nostro tempo l’umanità pone a se stessa. Si tratta di decidere. Della tecnica si vuole attualizzare il potenziale liberatorio da sfruttamenti e da repressioni, o si preferisce lasciarla crescere come «tecnocrazia», strapotere che dispone della tecnica per unificare in sé, alla fine, tutti i poteri che in vario modo sfruttano e opprimono? Peraltro, come nella conclusione di quel mio libro avvertivo, alla straordinaria occasione della tecnica non solo non si può non rispondere, ma «urge rispondere». Altrimenti potrebbe darsi che, realizzatasi la totalitaria tecnocrazia, prima o poi di occasioni a cui liberamente rispondere non ve ne siano più. Gli uomini allora non resterebbero che semplici effetti di sistema, passivi «ingranaggi». 

Umanesimo, caro Abruzzese, non è ’«umanismo ideologico», non è paradigma della «libertà in sé e per sé dell’essere umano». Esso piuttosto è filosofia vivente, sempre in crisi e sempre in lotta, anche autocriticamente, poiché la «libertà» non è qualcosa che si trovi bell’e fatta da qualche parte, a destra o a sinistra, ma si elabora giorno per giorno e sempre da capo, a cominciare dall’individuazione delle circostanziate illibertà, anche le novissime e seducenti, il cui peso ogni volta tocca scrollarsi di dosso. 
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Il Mattino