«Antonia era piena di amore per tutto e per tutti. Aveva un grande cuore, la sua morte mi ha spianato»: poche parole strappate con un messaggio di Facebook dove aveva...
OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
Tutto il sito - Mese
6,99€ 1 € al mese x 12 mesi
Poi solo 4,99€ invece di 6,99€/mese
oppure
1€ al mese per 3 mesi
Tutto il sito - Anno
79,99€ 9,99 € per 1 anno
Poi solo 49,99€ invece di 79,99€/anno
«Mia nipote non aveva mai accettato la morte di Antonio – dice la zia Eugenia Sito che la ha seguita fin da bambina – e aveva sempre nutrito odio nei confronti di chi le aveva tolto il padre. Poi, incontrando Ferrandi si era resa conto che quell’odio che aveva covato per anni le stava facendo del male. Ed è finita che è stata lei a consolare lui. Da quel momento lei aveva cominciato a riconquistare il sorriso. Dopo quell’incontro aveva parlato nella scuola intitolata al padre. Aveva un discorso preparato, ma aveva lasciato perdere quelle pagine e aveva parlato direttamente ai ragazzi. “Lasciate perdere l’odio, perché vi rovina la vita. Io ho perso parte della mia giovinezza ad odiare e credetemi, non ne vale la pena”». Antonia Custra non era una donna qualunque. Era una donna con un destino amaro, segnato quando era ancora nel ventre della madre. Era il 14 maggio di un anno nero, il 1977, quando suo padre Antonio, poliziotto nato e Napoli e al lavoro alla Celere di Milano, era stato ammazzato con un colpo alla testa nel corso di una manifestazione organizzata dagli extraparlamentari di sinistra per protestare conto l’arresto di Giovanni Cappelli e Sergio Spazzali, avvocati di Soccorso Rosso. Il corteo, partito dal carcere di San Vittore, era arrivato in via De Amicis quando gli uomini della Celere avevano tentato di bloccarlo. I manifestanti avevano cominciato a sparare. Ed era stato allora che il fotografo Paolo Pedrizzetti aveva inquadrato un ragazzo con il passamontagna calato, piegato sulle gambe, la pistola alzata a prendere la mira per ammazzare.
Un’immagine che era diventata il segno del terrorismo. Quelli che vennero dopo furono anni di buio e di morte. Li chiamarono Anni di Piombo. Ma a morire quel 14 maggio fu un ragazzo, Antonio Custra, un giovanissimo poliziotto arrivato da Napoli, che non tornò mai più a casa dalla moglie incinta. Due mesi dopo nacque una bimba, che prese il nome del papà. Cosa sia stata poi la sua vita lo raccontò poi lei stessa in un’intervista esclusiva data a Carlo Nicotera per il Mattino. Anni di sofferenza, la battaglia contro «l’anoressia e la bulimia che mi hanno devastato la vita. L’insicurezza, la cura in analisi». Poi nel giugno del 2007 l’incontro con Ferrandi che lei ricordò così: «Ho bussato alla porta di Mario. Mi ha aperto, e ci siamo dati la mano. Ho visto una persona, un individuo. Mi sono sorpresa a pensare questo, e non che avevo davanti l’assassino di papà. Lui era più imbarazzato di me e ho cercato di sdrammatizzare: quando mi ha chiesto se volevo un caffè, gli ho detto di sì purché fosse buono come quello napoletano. Poi gli ho fatto vedere una foto di mio padre e lui mi ha detto ”sei identica a lui”». Quindi insieme, l’assassino e la figlia della vittima, andarono in via De Amicis. «Io volevo sapere di quella morte, volevo capire – ha poi spiegato Antonia - Ho fatto una fatica enorme a superare l’odio ostinato che mi ha accompagnato in tutti questi anni. Ma quando sono stata lì, e Mario ha cominciato a spiegarmi dov’era lui, dove si era piazzato Giuseppe Memeo (il ragazzo della foto di Pedrizzetti, ndr), da dove arrivavano i lacrimogeni e dov’era la Campagnola da cui mio padre stava scendendo quando è rimasto fulminato, pian piano qualcosa si è sciolto dentro di me. E ho pensato che avevo fatto bene a vincermi e a incontrare Mario, perché l’odio mi stava distruggendo e l’odio è un sentimento contrario alla mia natura». Quel 14 maggio del 1977 in via De Amicis con Ferrandi c’erano molte altre persone. E fu grazie ad un’altra foto, quella scattata dal fotografo dilettante, Antonio Conti, che dieci anni dopo i fatti fu riaperta l’inchiesta. Il giudice Guido Salvini riuscì a identificare un fotografo, che compariva nelle immagini scattate da altri, e che puntava l’obiettivo verso la Campagnola della Polizia.
A casa Conti, furono trovati ventotto negativi della sparatoria che non erano mai stati pubblicati e si scoprì che a sparare era stato Mario Ferrandi, all’epoca militante di un gruppo di estrema sinistra, passato poi all’organizzazione terrroristica Prima Linea e finito dissociato.
Il Mattino