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Fa riflettere il fatto che, secondo i calcoli del Comune di Napoli, potrebbero arrivare ben 250mila richieste di partecipazione a quello che è già stato ribattezzato (senza molta fantasia, per la verità) il nuovo “concorsone” della Pubblica amministrazione partenopea.
Un numero così elevato di aspiranti dipendenti municipali o della Città metropolitana dimostra certamente che la ricerca del posto fisso non è poi passata così in secondo piano tra le aspirazioni degli under 30, come da più parti si era detto. E anzi conferma che di fronte ad un lavoro a tempo indeterminato cadono anche alibi e pregiudizi: ricorderete il primo Concorso Sud, bandito dal governo Draghi per 1800 tecnici da destinare alle amministrazioni pubbliche del Mezzogiorno per aiutarle ad attuare il Pnrr si rivelò un flop perché l’occupazione era garantita solo per tre anni. Né si può sottovalutare il livello di competenza e di qualità che è atteso da questa nuova infornata di personale: senza eccedere in ottimismo, è indubbio che lo svecchiamento dei dipendenti pubblici e la sempre più marcata digitalizzazione degli enti locali andranno di pari passo.
Il problema è quando tutto ciò avverrà.
Non è una domanda retorica, soprattutto in questa città: nessuno può chiedere alla Pubblica amministrazione di risolvere da sola i nodi strutturali della disoccupazione giovanile napoletana e tanto meno si può sempre ricorrere allo Stato, in ogni sua articolazione, per trovare sbocchi altrimenti impensabili. Che l’efficienza dei servizi pubblici gestiti dagli enti locali debba migliorare è assolutamente fuori discussione ma pretendere che questa sia l’unica strada per garantire anche una svolta lavorativa ai giovani è altrettanto certo. Certo, i sistemi urbani in cui l’equilibrio tra lavoro pubblico e occupazione privata funzionano non abitano da queste parti ma dove esistono garantiscono livelli di prestazioni a dir poco ottimali. Sono sinergici tra di loro e i risultati di gestone, anche in ermini di gradimento collettivo, lo dimostrano.
Qui no. Qui prevalgono individualismi e soprattutto frammentazione di idee, iniziative e progettualità che producono a conti fatti un enorme rallentamento dello sviluppo. Ed è proprio questo il punto: senza uno sviluppo concreto e coerente (con il territorio, con le sue vocazioni ecc.) sarà inutile anche dotare gli enti locali di nuovo personale, persino più motivato e disponibile del passato. Per farlo lavorare al massimo delle sue potenzialità occorrono condizioni di contesto ben diverse: scelte mirate, progetti cantierabili, visione, impegno costante e trasparente del capitale privato. Sviluppo è tutto questo e anche di più, a guardar bene, perché garantisce continuità di azione e durata della stessa, due necessità strategiche ad ogni latitudine. Non è un caso che se ne avverte ogni giorno di più la mancanza e che anche l’annuncio della nuova selezione pubblica, alla fine, faccia notizia più per il numero dei partecipanti che per ciò che i vincitori saranno chiamati a fare.
Il Mattino