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È lecito guardare al primo mese di ogni nuovo anno un po’ come a un programma in miniatura di quel medesimo anno? Un progetto. Una sintesi. Un riassunto di quello che verrà. In fondo, nelle prime settimane di gennaio si condensano spesso timori, speranze e difficoltà dell’anno appena cominciato.
Se questa idea è corretta, allora vale la pena improvvisarsi storico e sfogliare daccapo quei piccoli, preziosi referti della contemporaneità che sono i quotidiani. Andando a guardarli, in particolare, in una zona del giornale che resta il più formidabile termometro di umori, emozioni e irritazioni di chi vive la città ogni giorno: la rubrica delle lettere, quella sezione particolare e irripetibile dove si raggruppa un lessico metropolitano fatto di denunce, invettive, angosce e lamentazioni che un ceto politico che non volesse essere tacciato di incapacità e superficialità dovrebbe tenere sempre in massima considerazione. Poi, certo, sarà pur vero che reclami e proteste lasciano a volte il tempo che trovano, ma è altrettanto vero che affinché possa darsi una qualche forma di espiazione e di rinascita, è sempre necessario che qualcuno indichi colpe e manchevolezze.
E allora che città viene fuori dalla ricognizione attraverso la voce di lettrici e lettori del Mattino di queste quasi quattro settimane del 2022? Ripercorsa con disincanto e occhio critico, raccontata col piglio a volte sbrigativo ma sempre radicale e profondo di un innamorato tradito, la città dei lettori ha l’aspetto di un ritratto di Picasso.
Un ritratto di Picasso con un occhio spostato, la bocca in una posizione innaturale, un orecchio schizzato eccessivamente in alto, eppure – nel suo risultato finale – capace di restituire un volto sempre riconoscibile e coerente.
Che cosa fare di quelle voci? Come provare a dare loro potenza e sostanza? Come fare in modo che quel perenne referto urbano non si ammucchi, inutilizzabile, in vecchi magazzini abbandonati?
Siamo abituati ad attenderci sempre la catastrofe dal futuro, senza considerare con il giusto peso quei piccoli smottamenti del quotidiano che, al contrario di una improvvisa valanga, fanno meno rumore proprio perché lenti, distribuiti nel tempo. E siamo abituati a indignarci per le denunce che arrivano da fuori, da sguardi altri, esterni, stranieri, che sia l’articolo del giornale francese o il servizio della televisione tedesca, mentre guardiamo con noncuranza alle voci di casa, perché ci sembrano frutto di un automatismo alla lamentela, di un’abitudine alla doglianza delle quali non tenere conto, perché ritenute figlie dell’abitudine tutta italiana a sputare nel piatto in cui si mangia. Ma così facendo, quello che ci abbandona è non solo il senso della storia di una città, ma anche il senso del futuro, il disegno di un destino, l’idea della necessità di fare e immaginare, creare e progettate, dirigere e programmare il perimetro di esistenza di una città. E più i fatti spingono verso la necessità di questo atteggiamento, più i racconti di chi vive la città inducono a ritenere fondamentale questo cambio di passo, più noi cerchiamo di illuderci, corriamo verso residue illusioni, ci diciamo che dietro quella ribellione contro lo stato attuale delle cose non c’è salvezza. Ecco, forse il punto è che oggi non si può che stare dalla parte di quei racconti. Forse un tempo, fino a ieri, si poteva credere che sarebbe venuto il momento giusto della ripartenza da zero per ricostruire la città. È un’illusione, e quelle lettere lucide che ogni giorno affollano la rubrica dei lettori ci dicono anche questa verità odiosa. Sta a chi di dovere prenderne atto con la stessa lucidità, senza voltare la testa.
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